L’“interest rate magic show” è iniziato. E’ stato ribattezzato così, dagli osservatori più scettici, l’atteso meeting della banca centrale statunitense, la Federal Reserve. Che deve decidere se attuare l’annunciatissimo rialzo dei tassi di interesse dello 0,25% oppure rimandarlo a fine anno o a inizio 2016. Nessuno sa quale sia la scelta giusta. O meglio, ognuno la pensa a modo suo. Anche perché le prospettive cambiano a seconda del punto di osservazione. Gli economisti di Jp Morgan o Citigroup dicono che la Fed deve agire ora. I loro colleghi europei di Allianz o Deutsche Bank pensano l’opposto. Per l’autorevole governatore della Reserve Bank of India (ed ex Fmi) Raghuram Rajan è meglio se la Fed si muove adesso. L’attuale direttrice del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde spinge invece per un rinvio, così come Larry Summers, economista di Harvard e già consigliere economico della Casa Bianca. Infine c’è anche chi pensa (teme) che in realtà l’organismo presieduto da Janet Yellen non abbia più il potere che gli si attribuisce.

L’aumento dei tassi affosserebbe gli ex emergenti in crisi – Chi è favorevole al rinvio teme innanzitutto che l’aumento possa avere pesanti contraccolpi sulle economie dei Paesi emergenti già in grave difficoltà per problemi interni o a causa del crollo delle quotazioni delle materie prime, di cui spesso sono grandi esportatori. L’aumento dei tassi statunitensi avrebbe infatti anche l’effetto di drenare capitali da queste aree spostandoli verso attività denominate in dollari che tornano a offrire rendimenti più allettanti. Un rialzo dello 0,25% è relativamente poca cosa ma quel che conta è che segnerebbe l’inizio di una tendenza. Un altro problema è che approfittando dei bassi tassi molti grandi gruppi industriali di Brasile, Russia o India hanno emesso obbligazioni in dollari e quindi si troverebbero a sopportare una carico di interessi più gravoso. L’80% del debito della russa Gazprom è ad esempio denominato in dollari, così come il 50% di quello della brasiliana Petrobras o il 40% di quello dell’indiana Tata Motors. Più in generale il ritocco dei tassi dovrebbe avere l’effetto di un colpo di freno sulla crescita, proprio nel momento in cui dalla Cina arrivano segnali di un rallentamento economico più forte del previsto.

L’arma di ricatto della Cina è spuntata – Qualcuno ha parlato di un potere di condizionamento della Cina, poiché Pechino ha in cassaforte titoli di Stato Usa per circa 1.280 miliardi di dollari. Che questo rappresenti un legame tra i due paesi è indubbio, ma ha più la forma di un matrimonio, nella buona e nella cattiva sorte, che di una sudditanza. Scaricando ingenti quantità di titoli sul mercato la banca centrale cinese ne abbasserebbe i prezzi trovandosi poi in portafoglio asset svalutati. Non un grande affare. Soprattutto in una fase in cui la banca centrale cinese ha bisogno di poter contare su tutte le munizioni di cui dispone e si trova già a fronteggiare un consistente deflusso di capitali. Prezzi più bassi significa inoltre rendimenti più alti visto che la cedola è fissa. In pratica, così facendo la Cina otterrebbe quindi esattamente il risultato a cui vorrebbe opporsi.

La Fed e il dilemma della credibilità – Chi sottolinea la necessità di alzare i tassi lo fa ricordando come questi siano fermi su livelli bassissimi dai tempi del crack Lehman Brothers, ossia da 7 anni. Seppur giustificata dalle condizioni eccezionali vissute in queste anni, una politica ultraespansiva finisce con l’alterare il corretto funzionamento dei mercati. Favorisce la proliferazione di bolle speculative, “droga” i mercati e li rende troppo dipendenti dalla banca centrale. La Fed ha inoltre bisogno di recuperare qualche margine di manovra per poter agire se le cose tornassero a volgere al peggio. Il rialzo sarebbe coerente con quanto professato dalla banca centrale che ha sempre affermato di voler legare la decisione a una ripresa del mercato del lavoro statunitense. Oggi la disoccupazione è bassa, al 5,1% e la creazione di nuove posizioni lavorative viaggia su livelli record. Un rinvio avrebbe in qualche misura il sapore di una sconfessione di quanto detto sinora. Una scalfitura della credibilità, che per una banca centrale rimane l’asset più prezioso.

I dubbi sull’efficacia delle politiche delle banche centrali – Tra gli investitori peraltro serpeggia già da tempo un certo disincanto verso la reale efficacia delle politiche dei grandi istituti centrali. I tassi sono a zero, Fed e Bce si sono impegnate e si stanno impegnando in operazioni mai tentate prima come il quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli di Stato ed obbligazioni a lunga durata per decine di miliardi di euro o dollari ogni mesi. Prima della crisi la Fed deteneva titoli per circa 800 miliardi (quasi unicamente bond Usa a breve scadenza). Oggi il suo portafoglio vale oltre 4.500 miliardi e c’è dentro di tutto, compresi 1000 miliardi di obbligazioni garantite (si fa per dire) da Fannie Mae e Freddie Mac, i due colossi dei mutui collassati nel 2008. Eppure l’inflazione non riparte, il target del 2% rimane lontano sia negli Usa sia, a maggior ragione, in Europa. La crescita economica è inferiore a quanto sperato. Di fronte a una nuova crisi che cos’altro potrebbero fare? Quali munizioni hanno ancora a loro disposizione? Da un’indagine condotta da Royal Bank of Scotland è emerso che ben il 68% degli operatori è scettico sulla capacità delle banche centrali di attuare nuove misure anti crisi in caso di necessità.

Va dato atto a Mario Draghi e colleghi di essere ben consapevoli di questa situazione e di non farne mistero. Presentando il quantitative easing europeo, Draghi sottolineò che si trattativa dell’ultima arma a sua disposizione e che non esisteva un piano B. Il presidente della Bce ha anche ricordato come le banche centrali possano creare le condizioni per favorire una ripresa ma poi sono altri i soggetti che devono concretizzarla. Sulla stessa linea il governatore della Reserve Bank of India Rajan, che recentemente ha affermato che le banche centrali hanno fatto tutto quello che era in loro potere e che ora la palla passa ai governi. In questo scenario di disillusione l’ipotesi più pericolosa è, paradossalmente, che la Fed alzi i tassi e non succeda nulla o quasi di tutto quanto si è detto o scritto in questi mesi.

La parabola del gallo: se il sole sorge anche senza la Fed – Per descrivere questa situazione il docente della New York University Aswath Damodaran usa una storiella molto efficace. In una fattoria viveva un gallo guardato come una specie di divinità dagli altri animali. Si pensava infatti che fosse lui, con il suo canto, a far sorgere il sole ogni mattina. Per questo tutti gli obbedivano e lo rispettavano. Una mattina il gallo rimase a dormire, il sole si alzò in cielo lo stesso e nessuno ascoltò o obbedì più al povero pennuto. In questi anni tutti hanno guardato alle banche centrali come a galli che fanno sorgere il sole. Se ci si accorgesse che non hanno più abbastanza munizioni per riuscire a influenzare i mercati si scatenerebbero confusione e ondate speculative contro qualsiasi asset ritenuto vulnerabile e non più difendibile.

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