Usa, preparativi per le celebrazioni  annuali attacco 11 settembre

E’ un anniversario fesso il 14°: il solito rituale un po’ ripetitivo ormai, il minuto di silenzio sul prato della Casa Bianca; la lettura dei nomi delle vittime dove sorgevano le Torri Gemelle; il tintinnio della campanella all’ora dei crolli. Uno si ferma un istante a guardare, a ricordare; e pensa: “L’anno prossimo sarà diverso, a due mesi dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti l’anniversario servirà a fare un bilancio dell’azione d’Obama contro il terrorismo”.

Eppure, in realtà, mai, forse, dall’11 Settembre 2001 la minaccia terroristica è stata così alta. E, mai, forse, come ora possiamo renderci conto che i guai di oggi nascono di lì: dall’attacco all’America; e dalla reazione, nel tempo scomposta, all’offensiva integralista. Il Califfato e la sua avanzata, che dà alla grande fuga da guerra e persecuzioni le dimensioni di un esodo biblico, con il flusso e i drammi dei migranti sulle rotte e sulle strade d’Europa, sono un effetto collaterale dell’invasione dell’Iraq e della cattiva gestione del dopo Saddam; e pure delle illusioni di evoluzione democratica alimentate dalle Primavere arabe, con i contraccolpi di guerra in Siria, repressione in Egitto, caos in Libia.

La percezione della minaccia torna a farsi sensibile, negli Stati Uniti e in Europa: cellule autonome, lupi solitari, imitatori per convinzione o per esaltazione possono non essere in grado di ripetere l’11/9 tra New York e Washington, ma possono produrre la strage di Charlie Hebdo. Il nemico è cambiato: non più Osama bin Laden, che è stato eliminato, né al Qaeda, che ha perso influenza nella galassia integralista, ma il Califfato e le sue milizie jihadiste; non più i video artigianali dell’ascetico leader fra le montagne, corano e kalashnikov, ma gli spot tecnologicamente sofisticati dei boia in azione.

I terroristi non hanno neppure più la necessità d’acquisire la complicità di uno Stato che li ospiti, come faceva l’Afghanistan dei talebani nei confronti di al Qaeda, perché lo Stato se lo sono fatto, per quanto sedicente e fittizio sia lo Stato islamico.

Per un lustro, dopo l’11/9, l’America era stata sul chi vive: scopertasi vulnerabile, da belva ferita azzannava chi aveva colpe, come l’Afghanistan del mullah Omar, e chi non c’entrava nulla, come l’Iraq di Saddam. Poi, dal 2006, quella tensione s’era attenuata: la presidenza del dialogo di Obama era stata anche frutto del mutato clima, confronto invece di scontro, “i ragazzi a casa” (invece che laggiù ad ammazzare e farsi ammazzare in Paesi che gli americani manco sanno dove stanno).

Ma, dopo le illusioni democratiche delle Primavere arabe, la deriva d’inefficienza e/o i giri di vite autoritari in quell’area hanno creato i presupposti per la nascita e la crescita dello Stato islamico e per una nuova ondata d’ansia da vulnerabilità agli attacchi del terrorismo. Obama resiste a chi gli chiede un’azione più muscolare; il suo successore potrebbe accondiscendere.

E poco conta che le armi negli Usa facciano ogni anno un numero di morti confrontabile con quelli dell’11/9 – armi impegnate da americani contro americani-; e che la guerra al terrorismo abbia già fatto più vittime americane dei kamikaze di quel giorno.

Il minuto di silenzio, la lettura dei nomi, il tintinnio della campanella: quel rito sarà pure stanco, ma è una messa collettiva che ogni anno l’America celebra anche per esorcizzare la paura di doversene inventare altre.

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