Canale 5 questa settimana ha preso a trasmettere Il Segreto sia prima del tg, nell’access prime time solitamente dedicato al quiz, sia in prime time e in formato XXL, al mercoledì (ma la prossima settimana toccherà al giovedì). E ogni volta, che piova o tiri vento, raduna circa 3,5 milioni di spettatori ognuno dei quali si beve più dell’80% dell’intera pozione. Ottima scelta per le casse di Mediaset che con una fiction pagata, si badi bene, quattro soldi perché non la produce, ma la acquista in Spagna, rimedia alla grande le serate, anche a costo di finire col somigliare a un fotoromanzo catodico.

Perché questa scelta? Siamo alla necessità del gruppo dei Berlusconi di tirare la cinghia per non tirare le cuoia o si tratta invece di un comportamento lungimirante? Della prima ipotesi tacciamo perché non siamo abbastanza addentro alle cose di Mediaset per poterne parlare. In compenso qualche buona ragione a sostegno della seconda prospettiva, quella più benevola, la troviamo senza fatica. Infatti la prossima disponibilità, via Netflix e altri, del video on demand a basso prezzo (un intero anno costerebbe meno dell’abbonamento Rai, già infimo) cambia il perimetro del “generalismo” e quindi anche le caratteristiche della fiction che meglio gli si attaglia.

La ragione è che il video on demand risucchierà l’offerta di film e di serie televisive di alta gamma (per scrittura, realizzazione e interpretazione). Insomma, è lì che nel prossimo futuro troveremo la “fiction evento”. E cioè le Gomorra e i Montalbano insieme con Game of Thrones e House of Cards, coi recuperi, preziosi come I Soprano e altri. Di conseguenza è possibile che Canale 5 abbia in fondo ragione a dismettere le vecchie, buone serie di un tempo, quelle trasmesse a cadenza settimanale per una dozzina di puntate o poco più, e di cercarne la sostituzione con la serialità quotidiana, a basso costo unitario (una puntata de Il Segreto costa una frazione minima del costo di una puntata di Gomorra). Scegliendo in sostanza di arruolare nei pomeriggi la forza dell’abitudine e di sfruttarla poi anche nelle fasce serali.

Se Mediaset ha ragione (e dei suoi uffici tutto si può dire tranne che non conoscano l’andamento di pubblici e mercati), chi deve riflettere sulla questione è anche la Rai. Che conseguirebbe il massimo dei risultati se riuscisse a “servire la tendenza”, come Mediaset, ma con telenovele prodotte originalmente in Italia e capaci di farsi adottare anche all’estero. E dunque non realizzandole a costi bassi, per uso solo interno, ma con tutto quel che serve per farle adottare anche oltre confine. Cosa possibile perché se siamo lontani dal poterci misurare con i giganti di Hollywood, almeno ai cugini spagnoli la concorrenza dovremmo essere in grado di fargliela.
Tanto più che su questo punto, e cioè sulla capacità di far girare nel senso giusto la macchina produttiva nazionale, sviluppando l’occupazione e le vendite all’estero, si gioca notoriamente il grosso, se non il tutto, delle più attuali ragioni d’essere della presenza dello Stato nella industria audiovisiva. Al di là di ogni languore per la cosiddetta dittatura degli ascolti.

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