Cronaca

Amministratori giudiziari, “paghe d’oro”: Cantone scrive al governo

Il presidente dell'Anticorruzione scrive all'esecutivo, chiedendo una legge chiara sugli stipendi degli amministratori, ai quali si deve attenere ogni volta che nomina un commissario. Riesplode dunque la polemica sugli stipendi a sei cifre dei manager chiamati a gestire i beni sequestrati alle mafie

Per mesi è scivolata sotterranea tra denunce isolate, alzate di spalle, ed esposti per stalking. Adesso però la questione degli amministratori giudiziari è finita direttamente sul tavolo del governo. Il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone ha infatti preso carta e penna per chiedere all’esecutivo di prendere in mano una questione spinosissima: la paga degli amministratori giudiziari. Un nodo irrisolto che, come spiega il quotidiano Il Mattino, coinvolge direttamente l’ex pm anticamorra, ogni volta che da presidente dell’Anticorruzione commissaria una gara d’appalto.

“La legge prevede che i commissari nominati debbano essere pagati come gli amministratori giudiziari – spiega Cantone al fattoquotidiano.it –  solo che non esiste una norma netta che disciplini il capitolo degli stipendi degli amministratori: è per questo che ho segnalato al Parlamento e all’esecutivo la necessità d’intervenire”. La lettera di Cantone, in pratica, ha l’effetto di portare all’ordine del giorno un caso ancora irrisolto:  non esiste un criterio univoco che disciplini le regole da seguire per nominare i gestori delle aziende confiscate alle associazioni criminali. I tribunali fino ad oggi si sono attenuti al decreto ministeriale della giustizia 140: quando il valore del bene sequestrato supera i 50 mila euro, all’amministratore giudiziario spetterà una retribuzione che oscilla tra l’1 e il 2 per cento legato ai componenti positivi di reddito lordo e delle attività. Una prassi che permette agli amministratori di raggiungere facilmente retribuzioni enormi.

È per questo motivo che adesso torna prepotentemente d’attualità la questione degli “uomini d’oro”. A trentacinque anni dall’entrata in vigore della legge Rognoni – La Torre, che introduce la disciplina del sequestro e della confisca dei beni alle associazioni criminali, nelle mani dello Stato c’è ormai un patrimonio immenso: è la cosiddetta “robba dei boss“, i beni tolti a Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra dal 1982 ad oggi. Si tratta di ottomila aziende sequestrate che valgono circa 4 miliardi di euro e danno lavoro a  quasi 80 mila persone, più 4.012 mila immobili: il valore totale sfiora i 30 miliardi di euro.

Solo che secondo Bankitalia il 90 per cento delle aziende sequestrate arriva rapidiamente al fallimento: in pratica solo un’azienda su dieci di quelle tolte alla criminalità sopravvive dopo che a gestirla arriva lo Stato. Ed è in questa fase che entrano in scena gli amministratori giudiziari. “I beni confiscati dovrebbero essere riutilizzati a fini sociali e invece, in troppi casi, sono stati considerati beni privati da alcuni amministratori giudiziari che li hanno gestiti come fortune sulle quali garantirsi un vitalizio’’, era stata la denuncia del prefetto Giuseppe Caruso, ex presidente dell’Agenzia per i beni confiscati, davanti alla commissione parlamentare antimafia. Caruso aveva citato il caso dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei più esperti amministratori giudiziari di Palermo, che ha gestito tra le altre cose l’Immobiliare Strasburgo, del gruppo Piazza.  “Solo per questo incarico – aveva detto Caruso -Cappellano ha preso una tranche di 7 milioni di euro, mentre per quanto concerne il cda percepiva 150 mila euro l’anno’’.Parole molto simili a quelle utilizzate da Pino Maniaci, direttore dell’emittente Telejato, che da mesi segnala l’anomalia dei golden manager di Stato, arrivando anche a depositare un esposto alla procura di Caltanissetta. “Occorre fermare il business di quegli amministratori giudiziari che con l’autorizzazione del Tribunale di Palermo riescono a svuotare patrimoni miliardari destinati a tornare alla collettività: sono loro i veri intoccabili dell’antimafia”, dice il direttore di Telejato, che recentemente è stato denunciato per stalking proprio dall’avvocato Cappellano Seminara.

Ma non solo. Perché Maniaci cita il caso dei supermercati Despar di Castelvetrano, un tempo amministrati da Giuseppe Grigoli, considerato cassiere e prestanome di Matteo Messina Denaro. “Quando lo Stato è intervenuto – continua sempre Maniaci – erano un impero economico, fatturavano 700 milioni di euro: in sei anni di amministrazione giudiziaria sono arrivati alla chiusura”. Ci ha impiegato invece solo quattro anni prima di chiudere i battenti la latticini Provenzano, a Giardinello, in provincia di Palermo: produceva mozzarelle e formaggi ed era arrivata ad avere quasi 60 dipendenti. Un vero gioiello che inizia il suo declino quando in società entra lo stesso Grigoli: nel 2008 scatta il sequestro, nel 2012 ecco la chiusura e il licenziamento per i 39 dipendenti rimasti. ” “In realtà a Palermo solo il 3 o 4 per cento delle aziende finisce per chiudere”, aveva detto poco tempo fa Silvana Saguto, presidente della sezione prevenzione del tribunale del capoluogo siciliano, che tempo fa Gian Carlo Caselli definì in un’intervista “la donna economicamente più importante di Palermo”.