A giudicare dalle proposte, compresa quella varata venerdì 27 marzo dal Consiglio dei Ministri, sembra scontato che il grosso delle nomine per i vertici Rai sarà fatto dal Parlamento e dal Governo. Come avviene, più o meno, ovunque per tutte le aziende del servizio pubblico televisivo. Come del resto è ovvio trattandosi di aziende statali. La differenza rispetto ad altri non starà nella fonte di nomina, ma nella selezione e nella durata dei nominati. Ad esempio, per BBC e Channel4, le due tv pubbliche inglesi, le nomine dei collegi di vertice le fa tutte il Governo, ma ciascun componente è nominato per proprio conto sicché col tempo è accaduto (si dimette uno, muore l’altro,….) che non arrivino mai a scadenza tutti in una volta. Una formula antiribaltoni che, unita alla stringente selezione di esperti del mestiere, mette il Collegio al riparo, per struttura e per cultura, dalle turbolenze della politica politicante. Da noi si adotterà invece il “simul stabunt simul cadent”. E quindi, a meno di una zampata in stile britannico, vivremo periodicamente la liturgia dei “nuovi vertici” per nuove condizioni politiche.

Detto questo, il futuro della Rai, più che dalle raffinatezze britanniche o dalle ruvidezze italiane in materia di “governance”, sarà determinato dal contesto di sistema. Come è sempre stato. Fino agli anni ’70, il monopolio Rai era una proiezione del sistema politico, dapprima con l’egemonia DC e poi con la spartizione delle leve editoriali con alleati e opposizione. La giustificazione – avallata dalla Corte Costituzionale– era che essendo scarse le “frequenze” per trasmettere, la tv fosse un monopolio naturale da governare “democraticamente” piuttosto che “aziendalmente”. Il risultato era una bassa efficienza (è allora che nascono le testate e le sedi multiple), a beneficio della rappresentanza. Il trentennio successivo è quello del duopolio dove la Rai, oltre a garantire la “rappresentanza”, stabilizza il sistema perché, con la dimensione garantita dal finanziamento pubblico, occupa tutto lo spazio editoriale che non è controllato dal Biscione.

Gli assetti del primo ventennio monopolistico e del successivo trentennio duopolistico dipendevano comunque da un presupposto: che la tv fosse un fatto “interno” del quale governi e parlamenti potevano definire le regole al riparo di confini tecnici “naturali”. Ed è proprio qui che casca l’asino che rende del tutto diversi i ragionamenti odierni, perché in tempi di internet i confini tecnici fra gli Stati si stanno dissolvendo (e semmai per tenerli in vita è necessaria una enorme volontà e forza politica, come in Cina). Dunque oggi per fare tv, pubblica o privata che sia, o si naviga nel mercato mondiale o se ne è sommersi. Questa idea di fondo è presente nel documento del Governo e ad essa è agganciata la motivazione preponderante del ruolo Rai come regista della intera industria creativa nazionale e dei relativi posti di lavoro.

La potenza del cambiamento di contesto internazionale è tale che l’ottimismo della ragione quasi ci induce ad affermare che, non importa da quali pessime volontà siano nominati, i nuovi vertici Rai dovranno comunque spendersi per costruirla davvero nuova sia nelle strategie sia nella organizzazione. In ogni caso sarebbe fantastico se la stampa esaminasse la questione anche da questo punto di vista. La storia del pluralismo, come avrebbe detto Marx, all’inizio è sublime tragedia, ma quando viene pavlovianamente riecheggiata finisce in farsa.

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