Trascorso un anno ciò che resta è soprattutto la frustrazione. Dodici mesi fa l’8 marzo il volo MH370 della Malaysia Airlines diretto da Kuala Lumpur a Pechino scompariva nel nulla. A bordo 227 passeggeri, per la maggior parte cinesi, e 12 componenti l’equipaggio. A distanza di un anno i punti fermi dell’intera vicenda sono ancora pochi. L’ultima comunicazione con le autorità di controllo della capitale malaysiana si ebbe attorno all’1:19 ora locale, mentre il velivolo stava per sorvolare il Golfo della Thailandia. Giovedì scorso il primo ministro australiano, Tony Abbot, ha avanzato l’ipotesi di ridimensionare le ricerche del Boeing 777, che attualmente si concentrano su un area di circa 60mila chilometri quadrati nell’Oceano indiano. Al momento le operazioni hanno coperto circa il 40% dell’area al largo delle costa di Perth. Le ricerche dovrebbero essere completate entro maggio.

“Non posso impegnarmi a far continuare le ricerche con la stessa intensità per sempre. Faremo del nostro meglio per risolvere questo mistero e per dare risposte”, ha però detto il premier, facendo eco alle parole del suo vice Warren Truss, che solo quattro giorni prima aveva provato a rassicurare l’opinione pubblica senza avventurare il paese in promesse troppo onerose che ancora non hanno dato alcun risultato: del velivolo, al largo di Perth, non c’è traccia. Lo scorso 29 gennaio il dipartimento per l’aviazione civile malaysiano ha ufficialmente dichiarato quanto accaduto “un incidente”. Pur senza fornire certezze, la decisione dà ai familiari di quanti erano a bordo dell’aereo la possibilità di ottenere risarcimenti.

Australia e Malaysia, i due Paesi in prima fila nelle operazioni di ricerca, hanno presentato nei giorni scorsi assieme all’Indonesia un nuovo sistema per monitorare e rintracciare i voli, cosicché non si ripetano più tragedie e misteri come quelli che circondano il volo MH370. Il sistema dovrebbe permettere di dimezzare i tempi per tracciare la posizione di un aereo in volo sull’oceano. Si dovrebbe passare dagli attuali 30 a circa 15 minuti, fino a una monitoraggio quasi in tempo reale. Per il numero uno dell’Airservices Australia, citato da The Diplomat, si tratta di un “enorme passo avanti”. Molti tra i familiari delle vittime sono tuttavia scettici.

A fine febbraio una delegazione cinese è arrivata in Malaysia con il preciso intento di spingere le autorità di Kuala Lumpur a rinnegare la dichiarazione che dava i passeggeri e l’equipaggio presumibilmente morti e per manifestare il proprio disappunto su come la Malaysia Airlines ha gestito la situazione. Critiche estese anche alla Boeing che, hanno spiegato, non avrebbe risposto alle loro domande sulla struttura e sul design del velivolo. Risultato di tutta questa confusione è anche l’emergere delle teorie più disparate, spesso dal sapore del complotto.

Quasi un anno fa, su Twitter, fu il magnate Rupert Murdoch a rilanciare l’ipotesi che l’aereo potesse essere stato nascosto in Pakistan. Un’altra tesi ipotizza che l’aereo fosse in realtà il volo MH17, sempre della Malaysia Airlines, abbattuto a luglio al confine tra la Russia e l’Ucraina. E non è mancato chi ritiene che in realtà sia stato preso dagli alieni. Il New York Times, in questi giorni, rilancia l’ipotesi di coinvolgimento del pilota, Zaharie Ahmad Shah, come potenziale responsabile della sparizione del volo. Lo fa citando un altro pilota ormai in pensione della Malaysia Airlines, nonché amico di Zaharie, secondo il quale far sparire un Boeing 777 sarebbe impresa impossibile senza la complicità di qualcuno dentro la cabina di pilotaggio. Fintanto che non sarà ritrovato il relitto si resta tuttavia soltanto nel campo delle supposizioni.

di Andrea Pira

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