C’è qualcosa che mi sfugge, in questo improvviso revival futurista di un’Italia interventista, in ansia per la sua Quarta Sponda, che non è più scatolone di sabbia, ma serbatoio di petrolio e gas. “Armiamoci e partiamo!”, va bene. Cioè, non va bene, ma per un attimo diciamo che va bene. Però, mi restano non chiare due questioni.
La prima: con chi? Partiamo da soli? Noi e l’Egitto? Con l’Ue? Con l’Onu? Ma, a quelli dell’Onu, glielo abbiamo detto? Noi che, per il momento, non siamo neppure nel Consiglio di Sicurezza. Dove, comunque, c’è gente che ha il potere di veto e che, ad autorizzare una missione del genere, neppure ci pensa.
Dice uno: partiamo con chi ci sta, perché è umanitariamente giusto. Lì s’ammazzano, lì c’è il califfo che ci minaccia, mettiamo insieme una coalizione e partiamo. Certo, s’è già fatto, con o senza l’avallo dell’Onu. Solo in questo secolo, in Iraq nel 2003 e già in Libia nel 2011 – l’Onu diede l’avallo, ma la coalizione andò oltre- o adesso contro il Califfato tra Iraq e Siria. Oppure, c’è pure chi va da solo, come la Francia nel Mali.
Mettiamo da parte i problemi di legittimità internazionale – i decisionisti pensano che siano tutte quisquiglie – e pure i dubbi sulla fattibilità di una coalizione, di cui non s’intravvedono, per ora, i ‘volenterosi’ di turno, Egitto a parte, che comunque ha un’agenda tutta sua e neppure troppo condivisibile, anche se il premier Renzi sembra subire una certa fascinazione dal rais al-Sisi.
Ma, a questo punto, sorge l’altra questione: che cosa ci andiamo a fare in Libia? A favore di chi e contro chi interveniamo? Sosteniamo l’integrità territoriale di un Paese che abbiamo noi inventato come entità statale con quei confini?
Sento dire che ci vuole un’azione di peacekeeping: dev’essere un lapsus, perché lì la pace non c’è e, quindi, non può essere mantenuta. Prima di averla, bisogna farla: ci vorrebbe, dunque, un’azione di peace enforcing. Il che vuol dire fare la guerra: punto e basta; non solo dal cielo, ma sul campo, con perdite – e numerose – da mettere in conto, senza considerare i morti ammazzati dell’altra parte, anzi delle altre parti.
E andare a fare peace enforcing stando dalla parte di chi? Del governo più o meno legittimo, che conta come il due di picche? O di una qualche tribù? E, quando siamo lì, come distinguiamo i buoni, ammesso che ci siano, dai cattivi? E come evitiamo che le bande si saldino tra di loro contro noi che siamo lo straniero, che è pure l’invasore e l’infedele?
Mi pare tutto, ma proprio tutto, molto improvvisato e molto esagerato. Mi sa molto di cucina interna e molto poco di cucina internazionale.
Ieri, domenica, l’Ansa, la maggiore agenzia di stampa italiana, ha dedicato alla Libia oltre cento titoli. L’AP, la maggiore agenzia di stampa americana e mondiale, una decina.
Certo, la Libia è vicina: lì c’è una minaccia che percepiamo come imminente; di lì partono i barconi degli emigranti; lì c’è l’Eni; e lì siamo stati potenza coloniale. Non è che non mi renda conto di tutto ciò. Ma l’ ‘armiamoci e partiamo’ mi sembra risposta precipitata e inadeguata. E mi preoccupa l’eco di consenso un po’ acritica che suscita.
Quello della Libia è un dramma, di cui portiamo delle responsabilità, non solo negli errori del 2011. Ma commettere un errore in più non attenuerebbe il dramma e non ridurrebbe la minaccia.
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