Pochi mesi fa Gianni Barbacetto raccontava su questo sito: «Cercasi masochista con fisico bestiale, grande pazienza e soprattutto tanti soldi, per lavare il peccato originale di Expo». Arexpo, la società pubblica che acquistò i terreni privati del sito ha forse trovato il soggetto giusto, dopo un’asta andata deserta. Il principe azzurro è l’Università Statale di Milano, che non somiglia al coraggioso e palestrato capitano d’impresa immaginato da Barbacetto, ma piuttosto a una delle tante incarnazioni del più classico Pantalone. Quello che paga. Ma Pecunia non olet, soprattutto se arriva in ultima istanza dal pubblico erario.

Insomma, si allontana lo spettro di Hannover 2000, che ha lasciato in eredità un sommo monumento all’inutilità post-moderna e un bel buco di bilancio. E quella che pareva la destinazione finale più ovvia non è stata temperata dalla difesa del bene pubblico, ma è svaporata con la crisi economica. Infatti, sono tramontati i fasti dell’edilizia periferica di qualità se non di lusso, un’idea che funzionava bene ai tempi della Milano da bere e sopravviveva ancora all’avvio di Expo 2015, ma che da qualche anno sta affondando assieme alla classe media impoverita; e sono ormai sepolte le idee brillanti come i nuovi stadi sportivi e le altre amenità sparate a raffica. Si sta cercando quindi la soluzione più ovvia, quella pubblica. Quella che avevano immaginato con poca fatica gli oppositori di un’Expo che sconfinasse dal sedime comunale.

Il mattone accademico ha fatto (quasi) più danni alla cultura di questo paese della scomparsa del congiuntivo, santificata dalla determinazione di fare lezione in inglese negli atenei più chic. E purtroppo non nella lingua shakespeariana dove il congiuntivo resiste, ma in quella sorta di linguaggio primitivo chiamato Globish che il congiuntivo lo ha abolito da un pezzo. Che fine hanno fatto progetti faraonici come il Politecnico di Milano nella Grande Bovisa o le avventure dell’Albergo dei Poveri e degli Erzelli a Genova? Senza dimenticare la miriade di sedi periferiche tirate su alla meno peggio per garantire almeno un istituto universitario a ogni borgo del Belpaese. Progetti sul cui rapporto tra beneficio e costo nessuno ha mai indagato sul serio; soprattutto sul denominatore, visto che lo si dovrebbe conoscere, mentre solo i posteri potranno dire qualcosa in merito al numeratore. Quanti soldi hanno speso in questo gioco coloro che gestivano gli atenei con piglio da immobiliaristi o almeno muratori improvvisati per conquistare un luogo di posterità; e magari, qualche credito politico da esigere a fine mandato? Mentre i già miserabili finanziamenti pubblici della ricerca a scala nazionale scalavano a tutta randa verso lo zero assoluto.

Dopo la costruzione dei pochi campus italiani ideati con almeno un occhio alla cultura, come Cosenza-Arcavata e Parma-Langhirano, negli ultimi 25 anni lo sviluppo del mattone accademico ha risposto, prima di tutto, alle sollecitazioni della politica e della finanza, senza proporre un disegno culturale degno di una società matura. Non ci sono ancora elementi concreti per valutare l’idea della nuova Città Studi da mezzo miliardo di euro, ma la vecchia Città Studi milanese ricordava agli anziani sentimentali e meno provinciali quelle poche miglia magiche del Massachusetts dove su un sponda del fiume Charles incontri la Boston University e sulla sponda opposta il MIT e, poco più a ovest, l’Università di Harvard. E che a Milano si chiamano più modestamente Statale, Politecnico, Bocconi e San Raffaele. Ma neppure il Lambro è il fiume Charles.

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