Si ritorna a parlare di privatizzazione di Fs. Il governo sembra intenzionato a vendere una quota di minoranza per fare cassa e non cambiare la struttura dell’azienda. Meglio sarebbe privatizzare solo alcuni servizi ad esempio l’alta velocità. Vediamo perché

di Paolo Beria* e Andrea Boitani**, lavoce.info

Il tema della privatizzazione delle Ferrovie dello stato è diventato centrale con la designazione del nuovo presidente Marcello Messori, che se n’è occupato fino al momento in cui ha rimesso le deleghe alla proprietà a fine 2014. La causa di questa remissione è già stata analizzata in un precedente articolo e risiede nell’esistenza di due diverse filosofie di privatizzazione dell’azienda: la cessione di una quota dell’intera Holding Fsi o la cessione di parti di essa in funzione della loro capacità di stare sul mercato o del loro essere o meno funzionali al servizio ferroviario. La prima via permette di fare cassa rapidamente, cedendo un parziale monopolio verticalmente integrato a privati, mentre la seconda sarebbe più complessa, ma permetterebbe di conservare alcune funzioni pubbliche in mano pubblica (come la proprietà della rete) oltre che una più efficace liberalizzazione a vantaggio dei viaggiatori.
Nel frattempo, è diventato chiaro che la strada che il governo e il ministero dell’Economia (ma forse non il ministro Lupi, ultimamente silenzioso sulla vicenda) hanno in mente è la prima: vendere una quota di minoranza, realizzare qualche miliardo di euro e non toccare nemmeno un bullone nell’azienda, garantendosi la pace sociale e la tranquillità dell’intero comparto. A ben vedere, però, questa strada sembra difficilmente praticabile per una serie di motivi tecnici, che verranno certamente evidenziati dall’advisor finanziario Bank of America Merrill Lynch, la cui nomina è stata appena annunciata.

Una privatizzazione improbabile, forse impossibile

La vendita di una quota della Holding è apparentemente semplice: viene ceduta una quota di minoranza (si è parlato del 40 per cento; Corriere Economia, 2 febbraio) e si realizza un introito per lo stato. Dietro a questa scelta, preferita dall’azienda nella sua quasi interezza, c’è l’argomento che non si può separare la rete perché altrimenti si perdono le sinergie con i servizi e si aumentano i costi. Ma questa “privatizzazione” presenta qualche scoglio tecnico, che sta cominciando ad emergere (sul Sole-24ore e più recentemente su Panorama, 4 febbraio), e potrebbe addirittura risultare impossibile o pericolosissima. Fsi ha un capitale sociale di 38.790 milioni di euro (al giugno 2014). Quasi 39 miliardi, una cifra enorme (Poste, con un fatturato più che triplo, ha un capitale di 1,3 miliardi). Il motivo è che essa possiede e iscrive a bilancio non solo i beni strumentali, come i treni, e altre proprietà valorizzabili, come gli scali inutilizzati, ma -attraverso la sua controllata Rfi- anche l’intera rete ferroviaria, cioè i binari (anche se in realtà, questo è dovuto al fatto che, storicamente, gli investimenti sulla rete venivano finanziati con aumenti di capitale). In questa bizzarra situazione, ereditata dal passato, Fsi (attraverso Rfi) è a tutti gli effetti proprietaria dell’intera rete (per effetto della legge del 17 maggio 1985, n. 210 e della legge del 23 dicembre 1998, n. 448) che la stessa Rfi, società del gruppo, ha poi ricevuto dallo stato in concessione per 60 anni (con l’atto di concessione del 2000). In altre parole, Rfi ha in concessione dallo stato la rete di cui è in realtà proprietaria. Ne consegue che, oggi, i binari e le stazioni sono pubblici solo perché Fsi è pubblica al 100 per cento. Dato questo assetto, se un privato volesse acquistare Fsi per il 40 per cento dovrebbe sborsare oltre 10 miliardi. Chi mai sarebbe disposto a investire tanto, per ottenere utili risibili in rapporto all’investimento? Probabilmente nessuno. Dunque sarebbe necessario separare i binari dalla rete, che è esattamente quanto lo zoccolo duro dell’azienda non vuole fare, senza contare che bisognerebbe approfondire cosa comporti questa scelta per la concessione in essere. Al governo stanno quindi studiando alcune varianti. Quella recentemente individuata (di cui Panorama dà le prime anticipazioni) è di ri-trasferire i binari allo stato (o ad una società di capitale da lasciare pubblica) e privatizzare senza di essi. Ma anche questo artificio presenta un paio di problemi: Fsi, svuotata del suo enorme capitale, perderebbe la possibilità di finanziarsi come si è finanziata finora e probabilmente anche di ripagare i debiti sin qui contratti. D’altra parte, se la proprietà passasse a una nuova società, essa avrebbe un enorme capitale, ma nessuna entrata, essendo i binari concessi a Rfi a titolo gratuito (gli attuali pedaggi di Rfi, infatti, non comprendono la remunerazione degli investimenti fatti per i binari che gestisce). A questo si aggiunga, si legge ancora su Panorama, che la pubblicizzazione dei binari sarebbe limitata alla rete tradizionale. O, se vogliamo vederla dall’altro verso, che la rete alta velocità sarebbe privatizzata assieme a tutto il resto (treni, servizi, immobili, impianti, personale, etc.). La rete, cioè un monopolio naturale, venduta in blocco insieme ai servizi, effettuati in condizioni di mercato e in concorrenza con Ntv-Italo e con altri. La cessione di una quota della Holding non sembra dunque una strada facilmente praticabile, oltre a far prevedere severi problemi regolatori.

Altre strade

Ammesso che si riesca a trovare una modalità per staccare la proprietà dei binari, appare chiaro che la modalità di privatizzazione di Fsi prescelta dal ministero dell’Economia serve solo a fare soldi, grazie alla mancata separazione della gestore della rete (Rfi) dal principale operatore ferroviario nazionale e regionale (Trenitalia). Al prezzo giusto, probabilmente, un buon affare per chi la compra, trattandosi di una situazione di integrazione verticale che ha effetti in termini di contendibilità se non addirittura di ostacolo alla concorrenza, venendo meno l’ambiguità oggi possibile grazie al fatto che Rfi non deve fare utili.
Vi sono però altre strade per privatizzare, forse meno redditizie per lo stato o più articolate da raggiungere, ma più sicure, fattibili e soprattutto più favorevoli a cittadini e viaggiatori. I punti chiave sono:
1. La proprietà della rete deve rimanere pubblica. Non per un vezzo collettivista, ma perché vi sono buoni motivi economici, primo tra tutti il fatto che gli investimenti sono e saranno sempre, in larga misura, decisi e pagati dallo stato.
2. Una progressiva separazione delle funzioni del gruppo, mantenendo ove possibile le sinergie, ma essendo pronti a rinunciarvi in qualche caso, se queste sono ostacolo all’efficienza del settore. Una strada (come si sta provando a fare nel Regno Unito e i Francia) è ad esempio quella di mantenere la manutenzione della rete in capo agli operatori regionali, cioè suddividere Rfi in sottoreti efficienti, ma mantenendo centralizzate alcune funzioni, quali l’allocazione delle tracce, l’informazione all’utenza, la programmazione, etc.
3. Il distacco e la vendita di alcune società del gruppo. In primo luogo, quelle non funzionali (reti elettriche, comunicazioni, proprietà immobiliari non funzionali, etc.) e in secondo luogo quelle che si ritiene efficiente porre sul mercato (ad esempio le merci o le Frecce o parte degli Intercity o i servizi bus sostitutivi, per non parlare di BusItalia).
Riassumendo, vi sono ottime ragioni perché la rete rimanga pubblica e in ogni caso è difficile immaginare che qualcuno possa spendere miliardi solo per acquistare binari privi di ricavi netti al pedaggio attuale (a meno di non voler fare salire il pedaggio al full cost e quindi ridurre il traffico). Una privatizzazione parziale, ad esempio dei soli servizi alta velocità o di parti non funzionali, permetterebbe invece di ottenere risorse, una struttura ferroviaria più snella, senza minacciare la socialità del servizio e soprattutto senza cedere monopoli naturali a privati.

Ricercatore in Economia dei Trasporti presso il DAStU, Politecnico di Milano. Laureato nel 2003 in Ingegneria Civile, specializzazione trasporti, e dottore di ricerca in Progetti e Politiche Urbane. Svolge attività di ricerca e professionale presso il Politecnico di Milano e ha collaborato con lo studio TRT e l’Agenzia Mobilità e Ambiente di Milano. Visiting scholar presso IWW, Karlsruhe University (DE) e presso il CTS, Royal Institute of Technology di Stoccolma (SE). I campi di ricerca sono l’economia, la regolazione e la valutazione dei trasporti. In particolare, si occupa di pianificazione e valutazione economica di piani e progetti di trasporto, dalla scala urbana a quella nazionale e dello studio dei mercati di trasporto. Professore di “Economia e Valutazione dei Trasporti” e di “Infrastructure Planning” presso il Politecnico di Milano. E’ co-autore di due libri e ha pubblicato numerosi paper presso riviste e convegni internazionali.

** Ha ottenuto l’M.Phil. alla Università di Cambridge, dove ha anche svolto attività di insegnamento. Attualmente, insegna Economia politica all’Università Cattolica di Milano ed Economia della regolazione al Master in Economia pubblica e al Dottorato in Economia e finanza delle amministrazioni pubbliche, presso la stessa università. Ha fatto parte della Commissione Tecnica per la spesa pubblica presso il Ministero del Tesoro dal 1993 fino al suo scioglimento, nel 2003. E’ stato consigliere economico del Ministro dei Trasporti e componente delle commissioni incaricate di predisporre il Piano Generale dei Trasporti (1999-2001) e il Piano Nazionale della Logistica (2004-2005). E’ autore di varie pubblicazioni nei campi della Macroeconomia e dell’economia della regolazione e dei trasporti. Redattore de lavoce.info.

Articolo Precedente

Trasporti marittimi: ‘In mano ad armatori privati senza gara Ue’, l’interrogazione di M5s sul Golfo di Napoli

next
Articolo Successivo

Politica industriale, un decreto legge ‘Gepi 2.0’

next