Un paese telelobotomizzato manifesta la tendenza a rimanere comicamente vittima dell’idealismo d’accatto e dei sentimenti melensi in cui si imballano i pacchi di scelte ignobili.

Prendiamo il Toto-Quirinale. Si sversano cascate di inchiostro e dotte disquisizioni su quale candidato sia più desiderabile, più equidistante, più puro, più tecnico, più vicino alla gente, più lontano dai partiti, più simile a Pertini, più amante della Costituzione, insomma un lago di melassa in cui resta invischiata l’opinione pubblica fino a convincersi che sia davvero in ballo la scelta del migliore. Giulivi creduli compongono la schedina quirinalizia senza pallida cognizione sullo sport a cui si assiste e sull’anfiteatro in cui si pratica.

Per i depositari dei gruzzoli di voti le idee politiche e la storia dei candidati al Colle sono del tutto irrilevanti. Destra, sinistra, cattolico, laico sono etichette apposte per quei quarti di popolo bue che ancora vi si indentificano. La caratteristica chiave, l’autentico valore di borsa parlamentare, l’unico discrimine ideologico su cui si misurano i candidati l’ha esplicitata Giuliano Ferrara a suo tempo e l’ha ricordata Aldo Busi su il Fatto Quotidiano: la ricattabilità. Essa è il superconduttore degli interessi che prevalgono in Parlamento (peraltro eletto con legge incostituzionale).

Per garantire fedeltà e acquiescenza nei momenti ferali non esiste amicizia, afflato, storia comune, affiliazione politica, unità di intenti che sia più solida di uno, o preferibilmente molteplici, scheletri nell’armadio, che assicurano il grado di ricattabilità diretta o indiretta (attraverso parenti, collaboratori e sodali). Una casa a Montecarlo, una tangente milanese, trattative imbarazzanti in Sicilia, consensi inconfessabili custoditi in intercettazioni, frequentazioni di sodalizi romani, conti in paradisi fiscali, finanziamenti di primarie e campagne elettorali milionarie sono il vero patrimonio politico squadernato dai candidati in trepidante attesa sulla bancarella del mercato politico nell’Italia delle caste, cricche e cosche.

Sarebbe ingiusto affermare che il milieu berlusconiano vanti la primogenitura sulla messa in circolo e il riciclaggio di cotal valuta, ma manovrando cospicui mezzi finanziari e mediatici ha avuto occasioni più ghiotte per servirsene. Ne sanno qualcosa Fassino, Marrazzo, Fini e le tante quaglie che zampettano. In definitiva è il generatore della macchina del fango ad alimentare la luce verde che da palazzo Grazioli lampeggia verso personaggi politicamente distanti, ferrivecchi di stagioni passate e addirittura strenui avversari.

Una sorta di conferma viene dall’interno. Ad un Capezzone (si, proprio Capezzone) che lo contestava in una riunione di Forza Italia un paio di giorni fa, Berlusconi ha replicato a muso duro sbottando: “Voi non capite! Queste riforme mi fanno schifo! Le voto perché se no avrei un Presidente della Repubblica nemico e se dovessee succedere prenderei tutto e scapperei all’estero”.

Insomma il gioco sembra consistere nella ricerca di un candidato con un adeguato e bipartisan bagaglio di ricattabilità immediata che garantisca un’adeguata remunerazione dei voti apportati. A meno che Renzi, qualora la ricerca si trascinasse troppo a lungo e magari rischiasse una deriva verso esisti sgraditi non decidesse di rompere lo schema. Tutto sommato un Presidente scevro da ricatti beneficerebbe chi ha meno da nascondere e nessun salvacondotto da richiedere. Allora sul Colle salirebbe un personaggio quasi nuovo, ma non del tutto estraneo alla politica, di sinistra ma senza passati ingombranti. Meglio ancora se avesse alle spalle lunghi periodi lontano dall’Italia e dalle meschine beghe politiche. E possibilmente un non trascurabile debito di riconoscenza.

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