Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha sbattuto per un soffio, la porta in faccia allo Stato palestinese, disegnando una bozza dei futuri equilibri internazionali sulla questione dell’ingresso della Palestina nel club mondiale degli Stati. In tanti avevano sperato in un epilogo diverso di questo annus horribilis per il popolo palestinese ma John Kerry, incontrando lo scorso 15 dicembre a Roma la delegazione israeliana era stato chiaro: gli Usa porranno il veto a qualunque iniziativa unilaterale.

Più che unilaterale avrebbe potuto dire “unica” dato che l’amministrazione Netanyhau sostiene il rigoroso mantenimento dello status quo; da loro non ci saranno road-map diverse da quella già implementata al momento, che prevede il riconoscimento dei confini post ’67, il consolidamento delle colonie in Cisgiordania e Gerusalemme capitale dello stato di Israele. E giusto il 26 dicembre, a pochi giorni dal voto in Consiglio di sicurezza, funzionari israeliani avevano annunciato l’approvazione del piano di edificazione di 243 nuovi edifici a Gerusalemme Est che andranno ad aggiungersi a 250 già in fase avanzata di progettazione. “Sono quartieri ebraici”, dicono.

Ma tornando al voto di ieri sera, nonostante la sconfitta fosse annunciata, le autorità palestinesi hanno voluto a tutti i costi che il piano, proposto dalla Giordania, arrivasse in aula e costringesse gli Usa a porre il veto. Sulla carta, i 9 voti sufficienti a far passare il provvedimento, c’erano: in questo caso, solo il niet di uno dei 5 membri permanenti lo avrebbe potuto bloccare. E invece un voltafaccia della Nigeria, inizialmente favorevole, ha tolto gli americani dall’imbarazzo consentendo alla delegata Samhanta Power di votare no, senza ricorrere a strumenti straordinari.

D’altronde Washington vuole attendere l’esito delle elezioni politiche israeliane del 21 marzo, che si preannunciano un referendum sul premier, e Netanyahu, per questo omaggio elettorale ringrazia: parlando oggi a margine delle primarie del suo partito, ha tirato fendenti alla Francia, che ieri ha votato si e vorrebbe ritagliarsi un ruolo di primo piano come negoziatore pro-Palestina, ripetendo che senza soluzione condivisa non si va da nessuna parte (almeno non i palestinesi).

Non che alle autorità israeliane importi poi molto delle tante soluzioni proposte dalla comunità internazionale, per Netanyahu ed il loquace ministro degli esteri Lieberman gli unici argomenti sul tema sono “status quo” e “scambi di popolazioni”, ma questa vittoria (ai punti) ottenuta dalla diplomazia israeliana non riesce a coprire la frattura sempre più ampia tra le potenti cancellerie che proteggono l’enclave ebraica, ed il più ampio sostegno ad un processo di pace giusta che è altra cosa dall’apatica e silenziosa accettazione degli effetti deleteri dell’involuzione “putiniana” e nazionalista di Bibi Netanyahu.

Un’accettazione/condivisione di intenti che emerge dal grigiore del lessico aziendalistico-istituzionale impiegato dai rappresentanti, soprattutto da quelli anglo-americani, nelle dichiarazioni di voto di ieri, rotto solo dalla brevissima ed appassionata dichiarazione di voto pro-Palestina dell’ambasciatrice argentina Marcia Perceval: “Nessuna risoluzione contraria potrà sbarrare la strada ad un popolo in lotta. Siamo tutti responsabili delle conseguenze che l’esito (negativo) di questo voto avrà”.

E probabilmente ha ragione. Per lo Stato di Palestina, domani inizia un altro anno di lotta.

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