Lo sguardo di un figlio non è mai indifferente a quello che succede tra i genitori dentro casa. Oltre 400mila bambini in Italia hanno assistito a episodi di violenza in famiglia ma per i tribunali e i servizi sociali conta poco. La violenza in presenza dei minorenni, infatti, non costituisce reato. Al massimo è un’aggravante, come stabilisce la nuova legge sul femminicidio in vigore dall’anno scorso. Eppure un genitore violento davanti ai figli provoca danni alla loro crescita psichica ed emotiva.

“Sono pieni di rabbia, hanno disturbi psicosomatici, dal mal di pancia a mal di testa e asma, spesso sono aggressivi con i coetanei, non si fidano degli adulti, sono indotti al senso di colpa, con la paura addosso. Tutte reazioni ansiose, da stress postraumatico. Il rischio più grave è che da adulti riproducano lo stesso modello familiare, passando da vittime ad autori di molestie”, spiega Daniela Truffo, educatrice del Centro donna Lilith di Latina, che nel 2012, insieme alla Fondazione Pangea, ha presentato il progetto “B-side: a barrier to stop the in-door domino effect” (una barriera per fermare l’effetto domino della violenza domestica sui minori) nell’ambito del programma Daphne III finanziato dalla Commissione europea.

L’obiettivo è aiutare contemporaneamente la madre vittima di gesti violenti e il bambino che ha assistito al vissuto traumatico attraverso un nuovo percorso relazionale. Un impegno non scontato. “Il tribunale dei minori – precisa l’educatrice – di solito dispone il sostegno psicologico dei figli solo se ricevono violenze. Questo significa che la gravità del danno subìto come spettatori, di aggressioni fisiche o anche solo di molestie psicologiche, non è riconosciuta”. A questo punto, il quadro peggiora. “Il lavoro dei servizi sociali è quello di garantire al figlio un legame con entrambi i genitori. Ma forzare la frequentazione con il padre violento – insiste l’educatrice – non fa bene al bambino, che è terrorizzato da lui”.

Proprio oggi, a Roma, in occasione della giornata mondiale dei diritti umani, Pangea onlus e Centro Donna Lilith illustrano i risultati del progetto. Ecco il bilancio: “In due anni abbiamo ospitato trenta donne con rispettivi figli, che hanno seguito un percorso ludo pedagogico attraverso attività creative”. Per esempio, la produzione di oggetti, la scrittura di una storia, la sua messa in scena, cineforum, sostegno scolastico, l’accudimento di un animale e la coltivazione di un orto insieme alle madri.

“Lo scopo è spezzare le catene del passato”. Come? “Facendo riscoprire alle madri il piacere di prendersi cura dei propri figli. Prima erano impegnate a sopravvivere, riuscivano a garantire solo cure primarie, trascurando il resto. Mentre i bambini imparano a esprimere con la parola i loro sentimenti, non più ricorrendo alla forza, a chiedere aiuto, a portare rispetto verso gli adulti”. Il percorso va affiancato con la psicoterapia. Non per tutti i figli è stato possibile, però. “Serve l’autorizzazione del padre, nel 30 per cento dei casi non è c’è stata”.

L’intervento è stato portato avanti con altri tre Paesi europei, Spagna, Ungheria e Romania. Dal confronto delle diverse esperienze, l’Unione europea intende realizzare programmi di recupero (e quindi linee guida) e un metodo unico di valutazione, monitoraggio e impatto sui diretti interessati. Oltre a sensibilizzare l’opinione pubblica. “Il progetto scade a gennaio 2015 – conclude l’educatrice di Latina -, speriamo di trovare altre risorse per mandarlo avanti”. Dal 2008 il centro donne Lilith accoglie madri e figli e li aiuta a rifarsi una vita. Il tempo di permanenza varia dai sei ai 12 mesi, finché la donna non è in grado di mantenersi economicamente ed è fuori pericolo. Ci sono 15 stanze, sempre piene. Ne servirebbero molte di più: ogni anno ci sono una ventina di richieste scartate.

Articolo Precedente

Vita di coppia: la fatica della costruzione e del mantenimento

next
Articolo Successivo

Figli e feste: caro amico ti invito, ma non portare i bambini

next