“Il calcio è lo sport dei lavoratori, un divertimento per i lavoratori”. Così Bill Shankly, storico allenatore del Liverpool FC, ancora alla fine degli anni Settanta può permettersi di raccontare il gioco del pallone nell’entusiasmante libro Red Or Dead (David Peace, Il Saggiatore, 2014, pp. 649). Trentacinque anni dopo invece, un report economico della Bbc intitolato BBC Sport’s Price of Football, certifica in maniera drammatica e in via definitiva che il calcio non è più lo sport e più il divertimento dei lavoratori. Il calcio di oggi, i lavoratori non se lo possono permettere. Dal 2011 il costo dei biglietti della Premier League è aumentato del 13%, paragonato al 6,8% dell’aumento del costo della vita. Ogni anno il costo di tifare la propria squadra aumenta in media del 4,4%, quattro volte l’inflazione che cresce dell’1,2%.

Dal 2011 il costo dei biglietti della Premier League è aumentato del 13%. Il costo della vita è salito del 6,8% 

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: gli stadi si svuotano dei tifosi, dei loro canti, del loro entusiasmo e del loro calore e si riempiono di gelidi turisti del pallone, che se va bene applaudono timidamente al fischio finale. “Mangiatori di sandwich ai gamberetti” li definì sprezzante qualche anno fa Roy Keane, capitano del Manchester United, furibondo per la mancanza di atmosfera e sostegno a Old Trafford. Lo stadio di Manchester è sempre pieno, ma da 75mila agguerriti sostenitori che cantano a squarciagola fino all’ultimo minuto si è passati a 75mila tifosi occasionali, gli unici che possono permettersi il costo del biglietto, cui basta un selfie per certificare la loro inutile presenza. Si pensava che l’aumento degli introiti televisivi (la Premier prende quasi 6 miliardi in tre anni) facesse calare il prezzo d’ingresso, ma così non è stato.

L’abbonamento meno caro della seconda serie costa 190 sterline. Quello al Barcellona 130 euro l’anno 

E nemmeno il calcio minore è più un rifugio per la working class britannica: in seconda serie i prezzi sono aumentati in media del 31,7%, in terza serie del 19%. Bisogna scendere giù in quarta serie, per trovare un calo del 3,2%. L’abbonamento annuale al Charlton Athletic, il meno caro della seconda serie inglese, costa 190 sterline. Mentre al Camp Nou di Barcellona ci si può abbonare ancora con 130 euro l’anno. Aspettare un gol dell’oscuro islandese Gudmundsson costa una volta e mezzo quello di Messi. “E’ ridicolo – spiega Kevin Miles della Football Supporters Federation –. In un momento in cui il calcio è sommerso di soldi, le televisioni pagano uno sproposito, invece di fare una politica di riduzione dei prezzi li aumentano. Le classi popolari sono state definitivamente escluse dalla partecipazione, il calcio ha perso la sua funzione di inclusione sociale”.

Il problema non sono i posti vuoti – come in Italia, dove nessuno va più allo stadio e a Trieste hanno provato coi tifosi di cartone, e il Milan organizza coreografie societarie al posto di quelle della curva per coprire i vuoti di San Siro durante il prepartita televisivo -, perché la Premier League con 37mila spettatori di media è alla sua massima capienza dal 1950. Il problema, quindi, è il calcio che perde il suo ruolo centrale di formidabile collante sociale, permettendo partecipazione e protagonismo a classi economicamente escluse da altri tipi di svago.

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