Come accennato nei post precedenti (qui e qui) il rapporto tra il nostro paese e Internet pone alcune questioni urgenti e ineludibili che l’accordo Ttip potrebbe bloccare. La questione della privacy e della tutela dei dati, tra queste, è una delle più spinose. Il problema, infatti, in questo caso è rappresentato proprio da quegli Stati Uniti con cui si vorrebbe siglare un accordo di partnership “commerciale e finanziaria”. Il riferimento è ovviamente al Datagate e alle rivelazioni di Edward Snowden, l’ex contractor della Cia che ha svelato al mondo il sistema di intercettazioni telefoniche e telematiche messe in piedi dai servizi segreti statunitensi.

Il tema, nel corso dei mesi, è scivolato in secondo piano e ed è sostanzialmente sparito dalle prime pagine dei media. Basta però leggersi l’ottimo libro di Fabio Chiusi Grazie Mister Snowden per capire quale peso abbia per il futuro della Rete. Il libro, che si può scaricare gratuitamente facendo una semplice ricerca su Google, mette in fila tutte le informazioni emerse nel corso dei mesi, disegnando così lo schema complessivo dei sistemi di controllo Usa sul web. Riassumendo, emergono 4 punti fondamentali:

1) Il governo degli Stati Uniti d’America esercita un controllo pervasivo su tutti i dati e le comunicazioni che circolano sul pianeta.

2) Le polemiche seguite al Datagate hanno portato l’amministrazione Usa a ridurre la sua attività solo nei confronti dei cittadini statunitensi. Il diritto/dovere di controllare e spiare i cittadini di altri paesi (alleati o no) non è mai stato messo in discussione.

3) Il governo degli Stati Uniti ha agito attivamente per indebolire i sistemi di sicurezza (ad esempio la crittografia delle comunicazioni via Internet) con l’obiettivo di trarne vantaggio.

4) Circa 850.000 persone possono accedere a queste informazioni, molte delle quali agiscono come contractors, ovvero come privati che lavorano per conto delle agenzie governative americane.

Tirando le somme, la più grande potenza mondiale ha accesso a tutte le comunicazioni a livello globale. Non solo al mio account Facebook o alle mie email, ma anche ai metadati riguardanti le telefonate dei dirigenti delle aziende e, verosimilmente, ai dati conservati sui server delle aziende americane che gestiscono i dati delle società straniere. In pratica, chi usa Internet per comunicare (sia a livello personale che professionale) è costantemente spiato. Se il responsabile dell’Eni contatta il suo omologo di una società russa, quindi, qualcuno negli Stati Uniti lo sa immediatamente. L’informazione potrà anche non interessare direttamente il governo americano (anche se sappiamo che il concetto di “interesse nazionale” in Usa ha contorni molto ampi) o una delle sue agenzie, ma le probabilità che una di quelle 850.000 persone conosca qualcuno interessato all’informazione sono piuttosto elevate.

Nonostante il silenzio dei media, la situazione sta condizionando pesantemente la vita della Rete. Sono tante, per esempio, le aziende europee che abbandonano i servizi made in Usa per riportare tutto nell’orbita continentale, nella speranza di sottrarsi alla rete di spionaggio di Nsa e soci. Le cose non sono però così semplici, visto che i programmi di spionaggio consentono agli 007 americani di intercettare anche i dati in transito, rendendo molto difficile sottrarsi ai loro controlli.

In quest’ottica, alcuni paesi stanno lavorando su forme di regolamentazione nell’uso di Internet. La situazione più avanzata è quella del Brasile, che con il suo Marco Civil da Internet ha imposto alcuni obblighi a chi vuole operare sul suo territorio. Ovviamente si tratta di vincoli che, per gli operatori del settore, hanno dei costi. Qualcosa di simile al Marco Civil da Internet viene proposto anche in Italia, a seguito della lodevole iniziativa promossa, tra gli altri, da Stefano Rodotà. L’iniziativa dovrebbe portare a una “Costituzione di Internet” che, in futuro, potrebbe arginare anche l’azione dei servizi statunitensi. Peccato che, in caso di ratifica del Ttip, eventuali obblighi imposti dal nostro paese nei confronti delle aziende americane finirebbero inevitabilmente nel calderone degli “ostacoli al commercio” che fanno scattare le clausole di salvaguardia degli investimenti. Insomma, con il Ttip in vigore, qualsiasi tentativo di regolamentare il web si scontrerebbe con il diritto delle multinazionali a contestare modifiche a loro (economicamente) sfavorevoli. Anche quando si tratta, molto semplicemente, di tutelare la privacy dei cittadini italiani o di impedire lo spionaggio industriale.

(continua)

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