Per uscire da una crisi economica e di fiducia, l’Europa deve ripartire da un progetto condiviso, che metta al centro le questioni sociali più urgenti. Se da un lato i giovani entrano con crescente difficoltà nel mercato del lavoro, dall’altro resta rilevante la percentuale di chi perde il posto a stadi avanzati della carriera, affrontando un reinserimento problematico. Avere un lavoro non significa essere al riparo dal rischio povertà, perché non sempre il salario garantisce una vita dignitosa. La recessione ha messo in luce l’importanza di uno strumento condiviso per affrontare delle condizioni straordinarie. Il semestre a presidenza italiana può essere allora un’occasione preziosa per approfondire il tema di stabilizzatori automatici comuni. Si tratta di meccanismi interni al sistema economico (ad esempio: imposte sui consumi dal lato delle entrate o sussidi di disoccupazione da quello delle spese), che riducono le fluttuazioni cicliche senza richiedere interventi da parte delle autorità di politica economica e possono essere efficaci per ridurre i picchi di disoccupazione. La questione non è nuova, se ne parlava già nel rapporto MacDougall del 1977. L’ipotesi di una capacità fiscale europea trovava consensi fin da allora, ma il trattato di Maastricht non ha previsto strumenti specifici nell’architettura dell’Unione economica e monetaria (Uem). La politica fiscale è rimasta nelle mani dei singoli paesi, sulla base del presupposto che gli sforzi profusi a livello nazionale avrebbero garantito l’equilibrio collettivo.

I limiti delle politiche a livello nazionale – La crisi però ha messo in evidenza i limiti di questo approccio. Fino ad ora i Paesi hanno potuto contare sulla sola svalutazione interna, che attraverso una riduzione di prezzi e salari permette di recuperare competitività. Ma nel processo di consolidamento fiscale – aumento delle tasse accompagnato da una diminuzione della spesa pubblica – il taglio si è riflesso in un deterioramento delle prospettive di crescita e del mercato del lavoro. In questo contesto, un meccanismo europeo avrebbe mitigato l’impatto della recessione, integrando l’azione degli strumenti fiscali nazionali dove necessario. Gli ammortizzatori sociali si sono infatti rivelati insufficienti a sostenere una crisi così lunga. Alla luce di questa carenza istituzionale, nel 2012 il Rapporto dei Quattro Presidenti ha presentato nuovamente l’ipotesi di stabilizzatori automatici comuni.

Dal punto di vista nazionale, questi strumenti permetterebbero ai Paesi di rispondere e assorbire meglio le congiunture economiche negative, sostenendo la domanda aggregata di breve periodo e favorendo la ripresa. Potrebbero poi agevolare il percorso di riforme strutturali, già avviato in alcuni casi, ma che nelle ambizioni e nell’intensità ha subito fino ad ora gli effetti di un’economia in recessione. Un meccanismo condiviso migliorerebbe la resilienza di tutta l’area e porterebbe ad una progressiva integrazione delle politiche fiscali.

L’ipotesi di uno sussidio di disoccupazione per l’area euro – Nell’ultimo anno il dibattito si è concentrato su uno schema di disoccupazione per l’area euro, attraverso cui gli Stati membri dell’Uem condividerebbero parte dei costi di assicurazione a fronte dei rischi della disoccupazione di breve termine. Un sistema simile avrebbe una funzione anticiclica immediata perché, essendo automatico, non sarebbe sottoposto ai limiti di una politica discrezionale (talvolta tardiva) e sarebbe in grado di sostenere la domanda interna in fasi di rallentamento economico. Una vera assicurazione, efficace sia a livello di singolo Paese, in caso di choc specifico, che a livello di area euro, perché ridurrebbe il rischio di un contagio.

Per il dettaglio tecnico ci sono ipotesi diverse. La Commissione ha discusso il meccanismo proposto dal professor Sebastian Dullien del think tank EFCR. Il sistema in questione sostituirebbe in parte quello nazionale, non comporterebbe quindi un aumento dei contributi previdenziali del lavoro, e potrebbe poi essere integrato dagli Stati. L’indennità sarebbe pari al 50 per cento della media degli ultimi stipendi, verrebbe versata per un anno al massimo e interesserebbe coloro che hanno contribuito allo schema assicurativo per 12 mesi consecutivi nei due anni precedenti.

I dubbi sull’efficacia e la scarsa volontà politica – Non sono mancate resistenze. Alcuni temono che le differenze tra i meccanismi di welfare nazionali e la diversa struttura dei mercati del lavoro possano inficiare l’efficacia di un’assicurazione europea; altri paventano il rischio che i trasferimenti ai Paesi in difficoltà si trasformino da temporanei a permanenti. In tutte le proposte avanzate finora, però, l’assicurazione contro la disoccupazione è calibrata per il breve termine. In linea di principio questo esclude comportamenti opportunistici. Una certa riluttanza si spiega anche con l’assenza di una forte volontà politica, che è il vero nodo da sciogliere già a partire dai prossimi mesi. La direzione però è quella giusta. Proporre uno schema di assicurazione condiviso significa accogliere le istanze dei cittadini europei, mettendo al primo posto la ricostruzione di un tessuto sociale ora deteriorato. Ma per procedere lungo questa rotta è indispensabile recuperare un senso di solidarietà maggiore, che permetta ai Paesi di alzare lo sguardo verso il lungo periodo e costruire il senso economico della loro unione.

di Valeria Cipollone

da Il Fatto Quotidiano del 3 settembre

Articolo Precedente

Governo Renzi, Praet (Bce): “Fare le riforme prioritarie partendo dal lavoro”

next
Articolo Successivo

Padoan sposa la linea Draghi: “Più potere alla Unione europea su riforme”

next