C’era un tempo che per ogni barcone, ogni bomba, ogni guerra riuscivi a vedere gli uomini. Uno per uno. Eri capace di immaginare il loro sgomento, il terrore. La disperazione. Come fossero le persone che amavi. Te stesso. Oggi non più. Le stragi dell’Isis, il massacro dei bambini di Gaza, le donne straziate da Boko Haram: non riesci più a leggere, riponi il giornale. Perché? No, non è (solo) dolore. È senso di colpa, perché senza che te ne accorgessi hai abbandonato i sogni di batterti per cambiare il mondo. È rassegnazione perché ti accorgi che il tuo tempo sta passando e né tu, né la tua generazione siete riusciti a fermare le guerra. È rimorso perché ti accorgi che ti sei abituato alla (tua) pace e non ti accorgi di quanta guerra ci sia ancora. Di che cosa potremmo fare per evitarla o addirittura per non contribuire ad alimentarla.

C’erano giorni che avresti provato disgusto per la nostra inerzia di fronte alla stragi in Medio Oriente, alla complicità delle banche europee nel trionfo dei narcos sanguinari. Oggi, no. E sei riuscito perfino a trovare giustificazioni. Parole come “realismo”, “impotenza”. E “crisi”, che ti permette di concentrare ogni preoccupazione sul tuo piccolo mondo. Così riponi giornali e pensieri e ti avvii sul sentiero che dalla strada per Dobbiaco porta ai pascoli di Lerosa, alla Croda Rossa. Lasci che sia il corpo a sentire per te, il terreno morbido di aghi di larice sotto i piedi, questa tregua di sole che riempie gli occhi e illumina la montagna. Sali, liberandoti passo dopo passo del tuo peso, fino al grande prato. Tra poco sarà il tramonto e, se ti nascondi bene, vedrai scendere dai ghiaioni, dalle pendici coperte di pini mughi, decine di camosci, cervi, caprioli. Cercano la fonte ai limiti del bosco. E tu sei solo, ai piedi dei tremila metri di roccia. Non ci sono che profumi, vento, colori. Poi accanto a te vedi una latta arrugginita. Ti rigiri il pezzo di metallo annerito tra le mani. Non è la solita lattina, la confezione di carne in scatola abbandonata dopo il picnic. È molto più vecchia, si disfa tra le dita. Possibile? Sì, non c’è dubbio. È una gavetta dei soldati della Grande Guerra. A centinaia sono morti qui: italiani contro austriaci a uccidersi senza sapere che dopo un secolo sarebbero stati amici. Il mucchio di pietre in mezzo al valico, dove l’aria è più leggera, era un altare da campo. E quei cumuli di terra in mezzo al prato non sono scavati dalle marmotte. Sotto sono stati sepolti uomini. Ventenni. Li vedi ai piedi del monte, forse proprio davanti a questo vecchio larice. Con questa gavetta in mano. Con i loro pensieri, i sogni finiti sotto l’erba verdissima. Erano uguali a te, di nuovo lo senti, come da ragazzo. Non è bastato salire fin quassù per sfuggire quel pensiero. Grazie al cielo.

Dal Fatto Quotidiano del 18 agosto 2014 

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