Furono già i primi filosofi sociali, quasi duemilacinquecento anni fa, ad affermare che le grandi discontinuità della Storia sono regolarmente ascrivibili alle disuguaglianze sociali. Platone e Aristotele, certo non accusabili di teneri sentimentalismi nazionalpopolari, argomentarono come sin dall’antichità i più gravi conflitti sociali siano sempre stati riconducibili alle iniquità distributive della ricchezza. Solo per fare il primo degli esempi possibili, la preferenza che Dio accordò alle pecore sacrificate da Abele, ne decretò la morte per mano del fratello invidioso. Ovvio che oggigiorno le disuguaglianze sociali siano ben superiori al diverso valore attribuito dalla divinità a un sacrificio. Ma, nonostante ciò, oggi comunque nessuno muore. Non per mano altrui, per lo meno.

E’ comunque possibile registrare quotidianamente le più accorate dichiarazioni in difesa dell’equità sociale e della salvaguardia dei più deboli, principalmente da parte di quelle forze politiche e sociali che, sul valore dell’uguaglianza tra i cittadini hanno costruito il proprio ascendente popolare ed elettorale. E’ infatti ormai del tutto evidente come, definitivamente tramontato il dualismo destra-sinistra (condannato dall’attualità, prima ancora che dalla Storia), la principale dicotomia sociale che si sta affacciando in Occidente sia quella tra le fasce di popolazione contraddistinte da un più diretto accesso al benessere da un lato e, dall’altro lato, le classi meno abbienti e socialmente più “disinserite”.

Nella più scientifica (e colpevole) indifferenza del circuito mainstream, questa divaricazione sociale – sul cui potenziale esplosivo si soffermano invece puntualmente economisti, sociologi e scienziati di fama mondiale – sta progressivamente assumendo le proporzioni di una frattura lacerante. Il fatto poi che, anche a livello politico, la gravità di questo scenario non occupi il primo posto nell’agenda dei nostri rappresentanti istituzionali, è a mio avviso un insulto agli stessi “valori” liberali dell’Occidente: la classe politica che ora – probabilmente per l’ultima volta – impugna le redini della governance Europea ha tra le mani una responsabilità storica di cui difficilmente comprende la portata.

A questo sconfortante scenario l’Italia ha improvvidamente scelto di contribuire con la pingue tracotanza dei primi della classe (quando, di quella classe, siamo invece gli ultimi). Non mi riferisco al 24% di consensi raccolti da un partito che, senza che molti suoi esponenti ne siano probabilmente nemmeno al corrente, è più di altri succube dei nuovi rentiers economico-finanziari internazionali. No, mi riferisco invece al partito di maggioranza assoluta: quello che raccoglie il 42% del corpo elettorale. Quello cioè di chi, scegliendo di non scegliere ha deliberatamente assecondato “l’eterna battaglia per la conquista delle menti degli uomini, finalizzata a inculcare nei cittadini la Storia dal punto di vista del Capitalismo, fino a che essi non saranno automaticamente in grado di riprodurla con straordinaria fedeltà.” E mai come oggi, all’indomani della chiusura del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, queste considerazioni di Noam Chomsky appaiono ammantate da un alone di tragica fatalità.

E’ giusto che lo si sappia: se da un punto di vista squisitamente economico siamo ancora piuttosto lontani dai livelli di guardia (la dotazione italiana di risparmio privato e l’abnorme percentuale di abitazioni di proprietà consentono ai tecnocrati di Bruxelles di sopportarci ancora di buon grado), dal punto di vista della coesione sociale l’orizzonte potrebbe non essere altrettanto sereno. Proprio in funzione di questo doppio piano, sarà interessante osservare se – qualora una nuova mannaia dovesse abbattersi sulle nostre tasche a fine anno – le prime scintille scoppieranno fra quei sei milioni di italiani in povertà assoluta certificati dall’Istat, oppure se (come ritengo più verosimile) fra quelle fasce di popolazione che, da sempre abituate a un maggior tenore di vita, saranno progressivamente costrette a rinunciare a una piccola fetta delle proprie sostanze. D’altronde, è noto: come la difficoltà a tagliare gli stipendi dei parlamentari dimostra perfettamente, è assai più rumoroso il malumore di chi a colazione deve passare da tre a due brioche, rispetto a quello di chi, alla mensa della Caritas, riceve un mestolo di brodo in meno.

L’aspetto che risulterà decisivo, per le ragioni storiche che accennavo all’inizio, è la modalità con cui gli interpreti sociali, mediatici e politici di questa propensione egualitaria decideranno di impugnare le proprie istanze. Se cioè – come avvenuto in queste settimane – a colpi di hashtag, streaming e qualche sterile post. Oppure se, come succede quando le pance si svuotano davvero, dalla cima di qualche tetto. Come accadde per esempio a Grenoble, il 7 giugno del 1788.

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