Messe da parte le elezioni europee ed il populismo dei nuovi leader dell’opposizione si ritorna a dipendere dagli indicatori economici. Questa volta però invece dello spread tutti gli occhi sono puntati sul tasso d’inflazione che continua a scendere. A maggio quello di Eurolandia è arrivato allo 0,5 per cento contro lo 0,7 di aprile. Più ci allontaniamo dall’obiettivo ottimale del 2 per cento, suggerito dalla Banca centrale europea, e più la minaccia della deflazione si concretizza.

Se l’Europa scivola sotto lo 0 per cento allora non è da escludere che ciò che sta succedendo in Grecia diventi l’anteprima del nostro futuro. Da almeno due anni, infatti, il tasso d’inflazione è negativo e da quattro l’economia non fa che contrarsi. In questi anni più di un quarto è svanita, fagocitata dai meccanismi della deflazione.

Risultati positivi? Nessuno perché l’economia greca si trascina dietro un fardello che la deflazione fa aumentare di giorno in giorno: il debito. Dal 2010, quando è scoppiata la crisi del debito sovrano, ad oggi il rapporto tra Pil e debito è passato da 130 a 175 per cento. Facile intuirne i motivi: se il Pil si contrae del 25 per cento ed il debito resta invariato la proporzione aumenta. Con i numeri non si scherza!

Naturalmente la deflazione fa scendere i salari, quindi riduce il costo del lavoro, in Grecia sempre dal 2010 ad oggi il salario medio è passato da 17 a 13,6 euro l’ora. Ma i costi più bassi non si sono tradotti in maggiore competitività perché è aumentata la pressione fiscale. Se l’economia si contrae diminuisce anche il gettito fiscale, per compensare questa contrazione lo Stato aumenta le tasse su chi ancora le può pagare. Gli industriali greci oggi pagano il 23 per cento di Iva ed il 20 per cento di tassa energetica, costi che l’impresa non può assorbire senza tagliare ulteriormente quelli di produzione o mantenere quelli di vendita a livelli superiori dei concorrenti stranieri.

Il pericolo della deflazione è serio ed infatti Mario Draghi ha ammesso di valutare alcune strategie eccezionali quali l’ulteriore taglio dei tassi d’interesse e l’imposizione di un tasso negativo nei confronti dei depositi della banche presso la Bce. Basterà questa strategia per far ripartire l’inflazione e con questa tutta l’economia?

A riguardo è illuminate l’esperienza della Danimarca che dal luglio del 2012 fino allo scorso aprile ha introdotto tassi negativi sui depositi degli stranieri denominati in corona danese, lo ha fatto per tenere alla larga dalla propria economia gli speculatori. Sotto questo aspetto la manovra ha funzionato ed infatti la pressione al rialzo della moneta prodotta dall’afflusso di capitali è scomparsa e l’esportazione non ne ha risentito.

Ma la Danimarca è una nazione con 5 milioni di abitanti ed un sistema bancario solido mentre Eurolandia è composta da 18 Stati con 330 milioni di persone ed un sistema bancario che fatica a generare profitti. I tassi negativi colpirebbero duramente le banche. C’è poi un altro fattore da prendere in considerazione: la politica dei tassi negativi in Danimarca non ha dato un grosso impeto all’economia, e cioè non ha spinto le banche ad investire nell’economia reale.

Anche l’esperienza giapponese alla fine degli anni Novanta, quando politiche simili sono state introdotte, conferma l’effetto limitato dei tassi d’interesse negativi quale stimolo alla crescita ed antidoto della deflazione.

Nonostante negli ultimi due anni lo spread sia sceso per l’Italia grazie alle parole rassicuranti di Mario Draghi, che si è impegnato a fare di tutto per salvare l’euro, i problemi dell’euro zona rimangono in gran parte irrisolti ed è possibile che presto su questa questione tutti i nodi vengano al pettine. C’è sola da sperare che i politici, Bruxelles e Draghi siano siano più bravi da parrucchieri che da statisti.

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