Osservando le vicende di questi giorni è difficile scegliere un argomento. Mi sarà perdonata, spero, una certa disorganicità.

Tra Reggio Calabria e la Liguria si è consumata la parabola di Claudio Scajola e di Amedeo Matacena. Il segno della parabola sta in due immagini entrambi di una strepitosa barca d’epoca. Il Black Swan (Cigno Nero) solca le acque di Imperia con a poppa un Matacena fiero, che esibisce tutto il suo potere. Capitano di mare in braghetta corta con accanto sua moglie languidamente distesa. L’altra è l’immagine della stessa barca alle Grazie, il piccolo porto cantiere, nei pressi di Porto Venere. Il Black Swan è in secca, gli alberi sono smontati e lo scafo è tristemente imballato da una protezione di plastica. Mi dicono che oggi forse appartiene ad una banca, ma la Finanza è appena stata in cantiere per prelevare le carte.

Immagini che si incrociano e che raccontano il trionfo dell’arroganza e la caduta. Matacena che oggi nelle molteplici interviste via Skype racconta di vivere in quaranta metri e di lavorare, beffa del destino, come maître a Dubai.

E Scajola, che guidava le polizie italiane, che pontificava da ministro dell’interno sulla cattura dei latitanti e adesso viene spinto dentro una vettura di servizio da un funzionario della Dia come un qualunque malacarne appesantito dall’accusa di essere sodale della ‘ndrangheta.

Si potrebbe dire che siamo di fronte alla triste parabola di due personaggi. Invece credo che questa parabola ci racconti altro. I giudici di Reggio parlano senza mezzi termini dell’esistenza di un’associazione segreta. Loggia, superloggia, cupola, P2…3…4…5…chiamiamola pure come vogliamo, ma una rete, un network criminale esiste. E la sensazione è che sia esattamente la medesima struttura che in passato è a tratti emersa, per poi immergersi prontamente nella palude italiana. Una palude dove si intrecciano tutte le storie di questo Paese.

Siamo così certi che la cupola che governava gli appalti all’Expo sia così lontana dall'”Associazione segreta” di Scajola & Co.? Siamo certi che la ‘ndrangheta, la mafia siciliana (o quel che ne resta) e la camorra si muovano sempre autonomamente? Che quello che accade in Toscana sia così slegato da quello che accade in Campania o a Milano? Che gli intrecci di affari, voti e potere che hanno portato dietro le sbarre il potentissimo Francantonio Genovese appartengono ad un altro mondo?

Conosco già la critica che a questo punto verrà puntualmente avanzata di fronte a questi interrogativi. Critica si riassume in una parola: dietrologia. Voglio essere chiaro. Io non credo a nessuna Specktre, non penso ad un Grande Vecchio che governa i processi e che tira le fila. Credo che però abbiamo un problema ed è un problema che non vogliamo vedere. Quello che manca in questo Paese, ed è una mancanza che va avanti da anni, è una riflessione sulla natura del potere in Italia.

Che natura ha il potere? Come si articola?

Gli intellettuali italiani, dopo Pasolini, si sono sempre guardati bene dall’esercitarsi sulla natura del potere. Io credo che questa incapacità ha consentito che questo Paese continuasse ad avere un governo occulto, nel senso di un governo e una classe dirigente extra istituzionale. Una struttura del genere non necessariamente è sempre esclusivamente votata al male (a volte i fini possono essere vasti), ma essa è sempre assolutamente priva di qualunque responsabilità verso il Paese e le regole democratiche. Una gestione del potere, dove le regole sono altre rispetto a quelle apparenti, dove la legalità è una variabile ed essa stessa può essere conformata alle mutate esigenze.

Il fine non è solo l’arricchimento personale (con buona pace dei fanatici dello scontrino) ma è qualcosa di peggio. Non si ferma alla casa acquistata a “sua insaputa”, ma ci porta a vedere chi governa scelte strategiche che appaiono incomprensibili anche alla semplice luce del buon senso e del diretto interesse nazionale. Se, ad esempio, si acquistano decine di cacciabombardieri e non si usano i soldi per favorire investimenti per far ripartire lo sviluppo, qualunque giornale, editorialista si porrebbe la domanda. La questione aprirebbe un dibattito, la gente ne sarebbe informata. In Italia no. L’argomento viene liquidato come la solita protesta dei nostalgici di una sinistra vecchia che non esiste più. Ma chi decide? I direttori dei giornali? Non lo so. Sta di fatto che esiste una conventio ad escludendum di alcune notizie, di alcune verità oggettive. Come questo accada è la domanda che dovremo porci.

Parlare del potere significa parlare di come si genera il conformismo, perché esso è esercizio di potere, ma ne è assolutamente simbolo (nulla lo esprime di più dell’imporre non solo un comportamento, ma un modo di pensare). Questo è un Paese nel quale i grandi media come il Corriere della Sera per nominare una lista candidata alle elezioni (che porta avanti temi dichiaratamente di sinistra) devono attendere la polemica di un paio di patetiche femministe da salotto di fronte alla provocazione di un bikini. Forse dovremo cominciare a preoccuparci, se ancora ne siamo in grado.

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