Settimana scorsa, in queste stesse ore, ritornavo in Italia dopo alcuni giorni trascorsi a Panama City per motivi professionali. E’ stato particolarmente disorientante ricominciare a lavorare nel contesto del nostro paese, caratterizzato da pessimismo di fondo e da un senso generale di declino, provenendo da un posto dove le uniche sensazioni che si respirano sono quelle di crescita, sviluppo, opportunità. Non è un caso che, tra le varie persone che oggi affollano Panama City, siano moltissimi gli Italiani (soprattutto figure professionali altamente specializzate in ambito tecnologico e finanziario) che hanno deciso di lasciare il “Belpaese” al suo destino di impoverimento, spostando la propria attività e la propria residenza dove possono creare impresa, ricchezza, lavoro.

Ma cosa può mai esserci, in un piccolo paese centro-americano, che manchi invece in Italia e che possa spiegare questa differenza di atmosfera? Non certo la bellezza del territorio (che di sicuro colpisce in alcune zone della costa caraibica di Panamá, ma di cui non è certo carente la penisola italiana, che anzi presenta una varietà difficilissima da ricercare altrove), non certo la storia e la cultura (tracce decadenti di alcuni secoli di non certo felicissima storia coloniale in un caso, tesori tra i più preziosi provenienti dall’intero arco della millenaria storia europea nel secondo), non certo il tessuto industriale e produttivo (ancora quasi assente nel primo caso, tra i più sviluppati del mondo, anche se in via di disfacimento, nel secondo). Non bastano, in ultima analisi, nemmeno caratteristiche strategiche come il famosissimo canale a spiegare questa evidente differenza di prospettiva: il canale esiste dal 1914 (al di là dei recenti pur importantissimi lavori di espansione), eppure per quasi un secolo non ha potuto portare l’economia di Panamá ai livelli di quella italiana, in grado anch’essa di trarre vantaggio da una posizione geografica e strategica tutt’altro che irrilevante all’interno del Mediterraneo.

La ragione del recente “boom” di un paese relativamente povero e arretrato come Panamá è da cercare altrove: nello sfruttamento crescente di quella stessa, incredibile “materia prima” che ha permesso ad un piccolo porto su uno scoglio del Mar Cinese Meridionale, Hong Kong, di diventare uno dei centri finanziari internazionali più importanti del mondo (ai primi posti in tutti gli indici di reddito pro-capite, competitività economica, qualità della vita, sviluppo umano). Questa “materia prima” è la libertà fiscale e regolatoria. La stessa che lo stato italiano sta sistematicamente distruggendo da decenni.

Per quanto riguarda Panamá, la situazione negli ultimi anni si è configurata come estremamente vantaggiosa: nonostante il paese sia considerato “white list” dall’Ocse (non si tratta quindi di un “paradiso fiscale” in senso tecnico), la tassazione sul patrimonio non immobiliare è zero, così come la tassazione per i primi 20 anni sugli immobili di nuova costruzione, la tassazione sul capital gain è zero, non esistono imposte di successione o donazione, esistono “free-zones” dove la tassazione sugli scambi commerciali è totalmente azzerata, la tassazione su tutti i redditi (di persone fisiche e imprese) prodotti fuori del paese è zero, mentre quella sui redditi prodotti internamente è comunque molto bassa (tra il 25% e il 30% nominale, ma con moltissime detrazioni, tra l’altro all’interno di un quadro fiscale relativamente semplice e privo di quell’approccio vessatorio e persecutorio a cui gli italiani sono tristemente assuefatti).

Anche dal punto di vista della regolamentazione la situazione è decisamente ottimale: poche pratiche, rapide e prevedibili, nessun corto-circuito burocratico kafkiano. Ho potuto osservare in prima persona un’incredibile spazio di libertà per molti business innovativi, basati su nuove tecnologie e nuovi approcci finanziari. Non è quindi casuale che oltre 35.000 holding si siano trasferite lì da tutto il mondo, che l’economia cresca ai ritmi più alti di tutta l’America latina (e cresceva anche in piena crisi mondiale, nel 2008), che il ceto medio sia in piena formazione e che migliaia di persone ogni giorno stiano uscendo dalla povertà tipica delle economie latino-americane arretrate, verso un boom che ricorda per certi versi quello italiano del dopo-guerra.

Non si tratta certo dell’unica nazione ad aver scoperto ed iniziato a valorizzare sempre di più l’importanza economica della libertà fiscale e regolatoria: molti paesi che provengono da secoli di povertà stanno scoprendo i vantaggi di questa fondamentale “materia prima”, crescendo a ritmi notevoli (alcuni esempi poco noti sono la Lettonia, il Gambia, la città di Nairobi in Kenya, la prefettura di Shannan in Cina). E molti paesi che hanno sempre fondato la propria prosperità su di essa lottano con le unghie e con i denti per mantenerla “in circolazione” (anche se purtroppo con alcune preoccupanti eccezioni, come la Svizzera, Cipro o il Principato di Andorra).

L’Italia è avviata, viceversa, in una pluridecennale crociata mirata a sprecare, dissipare, sporcare e infine distruggere questa fondamentale risorsa.

Ma non è il caso di preoccuparsi troppo: siamo troppo impegnati a discutere dei finti tagli di tasse di Matteo Renzi, o delle fondamentali esternazioni di Piero Pelù.

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