Contratto a tempo indeterminato a 35 anni, stipendio sicuro di 1200 euro netti al mese e un posto di lavoro in uno dei call center più conosciuti: un sogno per molti e che dal 2003 è stata realtà per i 200 lavoratori della sede milanese Sitel Italia Srl. Fino alla comunicazione giunta poco fa dai vertici dell’azienda: si chiude in Italia e si apre in Serbia, tutti licenziati.

La Sitel, nata in Spagna e con ramificazioni in tutta Europa, chiude gli uffici di Milano lasciando a casa quasi duecento operatori che per più di dieci anni si sono occupati dell’assistenza telefonica di prodotti elettronici: computer, stampanti, telefoni. Una forza lavorativa altamente qualificata che però all’azienda costa troppo. Motivo per cui tutte le commesse italiane sono state passate a un centro multilingue dell’Europa dell’Est dove la retribuzione mensile di un assistente telefonico è pari a un terzo di quella di un italiano. “Con il fatto che l’italiano è la nostra lingua madre: da oggi in poi chi acquista un computer Hp o una stampante Toshiba dovrà affidarsi a un’assistenza serba da cui farsi dare indicazioni e a cui comunicare dati personali”, spiega Fabrizio Di Mauro, sindacalista Rsu/Sei, anche lui fra la schiera dei licenziati. “I vertici spagnoli si sono riuniti nella sede di via Montecuccoli: e mentre fuori dai cancelli i lavoratori protestavano con volantinaggi e striscioni chiedendo un reinserimento lavorativo, dentro gli uffici si è deciso di licenziare tutti. Per i sindacati non c’è stata possibilità di mediazione”.

Da maggio a dicembre 2013 gli assunti hanno beneficiato della cassa in rotazione. “Si lavorava a settimane alterne, ma almeno si lavorava”, afferma Di Mauro. A gennaio 2014 la musica cambia: i capi rinunciano all’aiuto statale e tutti gli operatori telefonici vengono messi in aspettativa retribuita a spese dell’azienda. “Dopo la comunicazione ci è stato impedito il rientro lavorativo in ufficio. E mentre noi eravamo costretti a casa i vertici Sitel hanno cominciato a delocalizzare l’intero apparato, spostando tutte le commesse in un centro multilingue della capitale serba. Hanno iniziato con la Hp, per poi aprire anche a Toshiba e Bosch. Su 182 solo 26 lavoratori che si occupano dell’assistenza LG sono rimasti a Milano, ma solo ed esclusivamente perchè Sitel ha ceduto un ramo d’azienda”.

L’ennesima storia di delocalizzazione italiana accade a Milano, la città che per sei mesi da maggio a ottobre 2015 accoglierà l’esposizione universale. Le imprese che dieci, vent’anni fa decidevano di investire su suolo italiano oggi si spostano altrove. “Se un operatore telefonico a Milano costa 1200 netti e in Serbia, Bulgaria, Romania non più di 400 al mese, l’azienda sceglie i 400 euro serbi, bulgari o romeni. Ma questo meccanismo nel tessuto sociale porta a danni irreparabili. Basti guardare agli Stati Uniti che da almeno vent’anni spostano i call center da un paese povero all’altro, prima in India, poi in Thailandia, sempre alla ricerca del prezzo minore”, racconta Filippo Da Ros, anche lui assunto da tre anni in Sitel a tempo indeterminato e che oggi, all’indomani del licenziamento, si ritrova a dover pagare il mutuo e mantenere una famiglia. Come lui molti altri, sulla certezza di uno stipendio fisso e di un contratto siglato con un’azienda di quel calibro, avevano deciso di costruirsi una vita familiare. “Gli operatori della sede milanese sono tutti padri di famiglia fra i 35 e i 45 anni, persone che sono a metà della propria vita lavorativa e per cui oggi trovare un altro impiego non sarà facile”. Venerdì 11 aprile la Sitel aprirà la procedura del licenziamento. Nel frattempo i lavoratori hanno creato il gruppo facebook ‘Sitel Italy employees against delocalization’ da cui nei prossimi giorni faranno partire una protesta mediatica contro i vertici spagnoli.

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