La web tax è stata la prima battaglia di Matteo Renzi. Il pretesto per la prima spallata al vecchio governo. Nove giorni dopo il suo trionfo alle primarie del Pd, quando nessuno poteva immaginare che di lì a poco avrebbe conquistato anche Palazzo Chigi spintonando Enrico Letta, l’allora sindaco di Firenze mandava un ideale sms al presidente del Consiglio: “Quella tassa va eliminata”. Fu il primo scontro con i lettiani, visto che invece il presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia ha difeso la misura finché ha potuto. Ma Renzi quella battaglia sembrava averla vinta: quando il suo consiglio dei ministri ha approvato il primo provvedimento (il “Salva Roma“) ci ha infilato dentro proprio la rimozione della web tax. Ora, sbattuta fuori dalla porta come un boomerang la tassa rischia di rientrare dalla finestra. Anzi, visto che il segretario del Pd l’ha chiamata la “nuvola di Fantozzi” mai metafora sembra essere stata più calzante. Si trova infatti nella cosiddetta delega fiscale il cui iter era cominciato con Letta presidente. Lì dentro, come ha scoperto l’agenzia Ansa, c’è ancora l’imposta destinata alle aziende online – da Amazon a Google, per esempio – che dovrebbero pagare una quota al fisco italiano per la vendita di inserzioni pubblicitarie.

Va detto che la norma non è direttamente operativa, perché la delega fiscale è una legge che, appunto, delega l’esecutivo a varare una serie di decreti legislativi che attuano i principi indicati. Dunque il governo, in teoria, dovrebbe esercitare la delega emanando un decreto legislativo che contiene la “web tax”. Secondo i giuristi, infatti si tratta di un atto che risponde a caratteri di “imperatività e istantaneità”, cioè il governo ha il dovere di attuare la delega; ma tale “imperatività”, questo dovere è solo politico, perché non è stato inserito in alcuna legge. Quindi il governo potrebbe “sfidare” il Parlamento lasciando trascorrere il tempo senza esercitare la delega su questo singolo aspetto. 

La tassa in particolare è all’articolo 9 del testo, dedicato al rafforzamento dei sistemi di controllo in chiave anti-evasione e anti-elusione: qui si afferma che uno dei decreti legislativi dovrà “prevedere l’introduzione, in linea con le raccomandazioni degli organismi internazionali e con le eventuali decisioni in sede europea, tenendo anche conto delle esperienze internazionali, di sistemi di tassazione delle attività transnazionali, ivi comprese quelle connesse alla raccolta pubblicitaria, basati su adeguati meccanismi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale”. Si tratta appunto di quello che in gergo tecnico si chiama “aportionment”, che consiste che far pagare alle multinazionali con sede fiscale all’estero, le tasse in Italia per la parte di ricavi che si stima sia stata prodotta nel nostro Paese e che giornalisticamente era stata chiamata prima “Google tax” e poi appunto “Web tax”. La norma era stata introdotto nella delega in commissione Finanze della Camera in prima lettura, il 19 settembre del 2003, e confermato nei successivi passaggi sia al Senato che a Montecitorio. E secondo il presidente di quella commissione, Daniele Capezzone (Forza Italia), tutto questo è solo una “tempesta in un bicchiere con poca acqua”. “Di tutta evidenza infatti – spiega Capezzone – nella norma c’è un’esplicito richiamo alla necessità di tenere conto di raccomandazioni internazionali e a eventuali decisioni dell’Ue. Di tutta evidenza, quindi, mentre la versione iniziale di un emendamento di un esponente del Pd tendeva a dare carattere determinato e imperativo alla norma, la versione finale esplicita che tutto deve essere legato a valutazioni internazionali ed europee”.

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