Ho incontrato Bobo Maroni sabato a Milano qualche ora prima dell’incontro al vertice del Nazareno. Per caso e in un ristorante. Considerava Berlusconi completamente fuori dai giochi, «almeno sino a qualche giorno fa – ha aggiunto – tanto che egoisticamente gli avevo consigliato di dedicarsi soltanto al Milan». Maroni è un noto rossonero, l’egoismo ci sta. «Ma poi – ha proseguito il presidente della Regione Lombardia – questo invito di Renzi lo ha riportato incredibilmente al centro del dibattito. Lui ha capito subito che entrare da condannato nella sede del Pd per fare le riforme sarebbe stato un fatto epocale. E così è stato, non c’è niente da fare: è un genio».

Per soprammercato, anche due paroline illuminanti su Matteo Renzi e le sue reali intenzioni: «È chiaro che uno che tratta Letta in quella maniera, dicendogli in faccia che non ha fatto un tubo, è uno che piccona il governo, che prima o poi è destinato a cadere. Parliamoci chiaro – ha concluso Maroni -, lui ha davvero qualcosa di comune con il Cavaliere, lui è un po’ Berlusconi».

Intanto cerchiamo di capire cosa fa (più) male. Perché a molta gente di sinistra questo incontro ha fatto male. Ha creato malessere, indignazione, turbamento. Anche il più morbido degli elettori lo ha vissuto con un certo qual sottile fastidio. Soltanto analisti privi notoriamente di cuore e sentimento, lo valutano come un grande passo avanti nella ricerca della Terza Repubblica. E non è escluso che lo sia, beninteso.

Il fattore F, dove l’iniziale identifica l’ex vice ministro Stefano Fassina, non ammette il minimo cedimento. A Sky Tg24 è stato lapidario: «Il Cavaliere nella sede del Pd, da dirigente mi sono vergognato».

C’è un primo indizio, dunque: uno dei dolori più atroci è stato vederlo “fisicamente” nella sede del Partito Democratico, come uno sfregio nel tabernacolo degli affetti, delle cose care, come se in quella casa si avesse anche il diritto primario di dire: no, qui tu non entri. Si poteva fare? Renzi evidentemente era di parere opposto, a sentire i suoi già il fatto che il Cavaliere abbia dovuto prendere le sue quattro carabattole (tra cui l’eterno Letta) e «venire» in casa del nemico ha rappresentato per il Pd (che il segretario ha in mente) una vittoria epocale (certo, qui una suggestione antica riporterebbe alla memoria Almirante che esce a piedi dalla sede del Msi per andare a onorare la salma di Berlinguer al Bottegone, ma stiamo parlando di giganti rispetti a nanetti della storia).

Il secondo indizio di grande malessere nel cuore dei militanti e degli elettori in genere, è un contrasto interiore, si direbbe persino un subbuglio: da una parte si rifiuta alla radice l’idea che attraverso una trattativa con il Pregiudicato il Paese possa crescere, arrivare a vedere una lama di luce, laggiù al fondo del tunnel, ma dall’altra non si può non considerare l’irruenza benefica con cui Renzi ha scosso il bosco secolare della sinistra. Da qui, la domanda finale: vale di più trovare una chiave che possa aprire qualche porta del Paese seppure con l’aiuto dell’Evasore Maximo o vale sempre e comunque l’assunto che con «quello» non ci si beve (più) neppure un caffè?

Terzo indizio di malessere, anzi di autentico giramento di cabasisi, è vederlo, lui il Caimano, al colmo della soddisfazione, quasi con la bavetta che gli scende da un angolo della bocca. Soddisfazione, peraltro espressa senza mezzi termini prima ai suoi più stretti collaboratori e poi in un messaggio bavosissimo alla nazione. Ecco, forse sta qui il dolore più vivo, il sale sulla ferita sempre aperta: la sua soddisfazione. Di fronte alla quale, anche un ipotetico vantaggio per il Paese non avrebbe alcun valore. O no?

 

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