ZITTI E MUTI

Un altro uomo di potere che critica spesso gli Agnelli è Diego della Valle.
Sono amico di suo figlio, ma a Diego Della Valle che ho incrociato spesso, non ho mai risposto nel merito. Un po’ perché credo che quando dice: “Parlano i risultati” abbia ragione mio fratello. Un po’ perché non sono un tuttologo e su certi temi, mi astengo. Come imprenditore Della Valle ha fatto un gran cammino, ma non basta trasformare un’aziendina in un’aziendona per far di te uno che può parlar di tutto e di tutti. Della Valle non se l’è presa soltanto con la mia famiglia, ma anche e in maniera poco graziosa, con Giorgio Armani. Ha detto che avrebbe dovuto restaurare il Castello Sforzesco come lui aveva fatto con il Colosseo.

Armani cosa ha risposto?
Gli ha fatto sapere che se deve far beneficenza lo fa con i suoi soldi e non con quelli degli azionisti e che in ogni caso, non ha bisogno di sbandierarlo. Nella storia italiana esistono due GA. Uno era Gianni Agnelli, l’altro è Giorgio Armani e allora zitti e muti perché Armani è uno che si è fatto da solo, è un esempio di distinzione, garbo ed eleganza, è in ufficio alle 7 e 30 del mattino e rappresenta l’Italia in giro per il mondo al massimo livello. Detto questo, non ho nessuna animosità né nessuna polemica da rialimentare con Della Valle. Spero capisca che è inutile perder tempo e che oggi il Paese non ha bisogno di conflitti interni né di piccoli giochi di potere. Ci sono imprenditori interessati ai Cda delle banche e dei giornali, ma c’è anche chi, di quel sistema, non ha voglia di far parte né oggi né domani. In generale, se devo confrontarmi con gente con cui non vado d’accordo, la chiamo direttamente. Non ho bisogno di pubblicità e se posso averne meno, sono anzi più sereno. Provoca dicendo che la mia famiglia ama andare in barca a vela. É vero, ma gli ricordo che io la barca l’affitto, lui ce l’ha di proprietà.

LA FIAT

Della Valle se la prende con la Fiat che delocalizza. Come giudichi le scelte di Marchionne?
Prima di lui la Fiat era un’azienda europea, oggi è mondiale. Marchionne non aveva molte opzioni. L’alternativa era tra vivere e morire. Penso abbia scelto bene. E vedo la delocalizzazione come una forma di internazionalizzazione . Ma parlo da azionista, in Fiat non lavoro più dal 2005, quando mi dimisi.

Prima di quello scandalo legato alle tue dipendenze si parlava di te come futuro presidente della Ferrari. È un sogno che coltivi ancora?
A Maranello vado circa cinque giorni al mese, ho un contratto di consulenza. Le macchine sono il mio primo amore, una vera passione. Ma il lavoro che faccio ora con “Italia Independent” non è un gioco. Ci sono famiglie che dipendono da me, prospettive, orizzonti che, al momento, nel mondo dell’auto non ci sono.

La prima esperienza nelle aziende di famiglia è stata però alla Piaggio di Pontedera, sotto falso nome.
Io ero il terzo in linea di montaggio, linea 2 amortizzatore-cavalletto in un contesto molto comunista e iper incazzoso. C’era un operaio che si vestiva come mio nonno. Si metteva l’orologio sulla camicia. Era il figo della linea di montaggio, io non volevo farmi scoprire, ero discreto e mi vestivo con le canotte da Renegade, quelle con l’aquila. Questo mi prendeva da parte e diceva ad alta voce: “Oh, sei vestito come uno sfigato! Un po’ di stile”. Stetti due mesi, dormivo in una pensioncina al centro di Pontedera, ma non ci prendiamo per il culo. La gavetta è un’altra cosa e due mesi non sono niente. Quello in fabbrica è un lavoro durissimo, dalla monotonia straziante, per cui provo profondo rispetto.

Ti hanno scoperto?
Ebbi un gran culo. Il giorno in cui ho smesso alla Piaggio sono andato a vedere la Juve allo stadio. Mi videro in tv, ma lo stage era già finito. Peccato, perché a Pontedera ero pazzo di un’operaia, che era veramente bella. Ma mi frenai e mi dissi: “Non ti permettere neanche di pensarlo, sarebbe una cosa da stronzo”.

È vero che, a Capri, rubasti un Taxi al grido di “la Fiat è mia”?
Ma vi pare che avrei mai detto “La Fiat è mia”? Il “Lei non sa chi sono io” non mi appartiene a iniziare dal lei. Io do del tu a tutti. A Capri non è andata così. Ho tanti difetti, ma non sono arrogante. Eravamo un po’ brilli, c’era stato il compleanno di un amico. Scherzai con un tassista e guidai l’auto per 10 metri. La mia fidanzata di allora mi disse di smetterla e finì lì. Qualcuno pensò poi di sfruttare la storia per fare pubblicità all’isola, ma non successe niente. Veramente niente.

Però in Fiat hai lavorato: alcune idee, come le felpe col logo dell’azienda, furono efficaci.
Arrivai in Fiat in un momento drammatico. L’azienda aveva perso il proprio padre e inventare comunicazione senza soldi e ringiovanire un marchio senza prodotto partendo dalla Stilo non fu facile. Bisognava ricreare empatia attorno a un marchio che vende auto ma paradossalmente, non ha auto. Riaccendere l’orgoglio, anche internamente. Per prima cosa inaugurammo l’Open Space. Una questione di trasparenza, non si doveva nascondere nulla ai lavoratori.

LA DIPENDENZA

Poi è arrivato il 2005, lo spartiacque della tua vita. Sei finito in rianimazione e sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Come è stato risalire dallo sprofondo?
Lento, sofferto, complesso. Difficilissimo come tutte le scalate per raggiungere il bello. Sono servite fatica e sofferenza.

E adesso ti senti in salvo?
Ora sono a metà strada. Adesso ho una certa pace interiore perché a quella definitiva – e chi lo nega mente – non arrivi mai. Ho pianto il mio miglior amico, ho visto gente morire, ho perso una donna che amavo molto e un lavoro che adoravo. Mi sono salvato per un soffio dopo aver visto la morte in faccia, ho avuto l’immensa fortuna di potermi giocare una seconda occasione. Ma il mio passato alla fine è stato un enorme aiuto. Anche con Italia Indipendent non è stato tutto rose e fiori. Momenti durissimi. Ma quando hai vissuto quello che ho vissuto io certo non ti fai scoraggiare. E oggi, senza presunzione, se penso alla competizione, penso a Ray-Ban. Con i nostri occhiali arriveremo o siamo già arrivati in Europa, America, Giappone ed Emirati Arabi. Vogliamo diventare quello che era la Swatch negli anni Ottanta.

LA RISALITA

Si dice che il primo a convincerti a uscire di casa, dopo lo scandalo, fu l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger.
So cosa dicono di lui. Che è una persona senza etica, un figlio di puttana per quello che fece in Vietnam e in Sudamerica negli anni 70. Ma con me è stato leale e paterno. Mi ha aiutato moltissimo, è stato tra i primi a tendermi la mano.

Cos ’hai imparato da lui?
Mi ha fatto capire che qualsiasi cosa facessi non era mai abbastanza. E che la fame la si coltiva, da ricchi e da poveri. Per migliorare non ci sono scorciatoie, devi combattere e lottare. Se mi chiedi di dare il 100 per cento nel lavoro, io non ci riesco. Do sempre il 400 per cento. E sapete perché? Perché i miei eccessi e la mia natura additiva non remano solo contro di me. Per la passione che ci metto sono lo stereotipo di un italiano.

Che uomo vuole diventare Lapo Elkann?
Uno che riesce a raggiungere i suoi obiettivi con etica, correttezza e umanità. Ho l’illusione che si possa emergere senza sotterfugi. Con la bontà: essere buoni non è qualità né un difetto. Se la classe imprenditoriale ha fatto credere che essere furbi fosse un valore, io rivendico il valore della bontà. Ci sono quelli che mi criticheranno sempre e quelli a cui non piacerò mai. Io vado per la mia strada. Senza arroganza, magari sbagliando, ma a modo mio.

Da Il Fatto Quotidiano del 18 ottobre 2013

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