“Mi sono trasferito a New York il 16 agosto 2001. Avevo 22 anni. Tre settimane dopo sono venute giù le Torri Gemelle”. Un benvenuto da far tremare i polsi. Eppure Luca Santaniello, jazzista, diplomato in percussioni classiche al conservatorio di Campobasso, è rimasto. E’ diventato il primo italiano ad entrare nel programma di jazz della Juilliard School Man e a conseguire l’Artist Diploma, “un programma post master, molto selettivo: mi hanno preso come batterista, prendono un musicista per ogni strumento ogni due anni per un massimo di cinque musicisti alla volta”.

Santaniello non è solo. Ha fatto da apripista a una nutrita pattuglia di musicisti italiani che hanno coronato il loro sogno: vivere e suonare nella capitale mondiale del jazz. “I jazzisti italiani a New York sono almeno una ventina – racconta Santaniello – e l’esodo si è intensificato negli ultimi anni. Ci si conosce più o meno tutti, e quando c’e’ l’occasione ci si incontra anche al di fuori del lavoro. Io organizzo regolarmente una cena a casa mia con pasta allo scoglio e spigola atlantica al forno con Riesling bianco a volontà. Quasi tutti insegnano musica per arrotondare gli introiti dei concerti, ma si sono ambientati bene e sono soddisfatti, convinti di stare nel posto giusto. Al contrario dei musicisti che incontro quando torno in Italia: si lamentano di continuo”.

Il batterista molisano snocciola qualche nome di colleghi ormai newyorkesi di adozione: Joseph Lepore, bassista di Salerno, Luca Tozzi, chitarrista di Campobasso, Roberta Gambarini, cantante di Torino, Simona Premazzi, pianista di Busto Arsizio, Tommaso Vittorini, direttore compositore di Roma, Marcello Pellitteri, batterista di Palermo. “Proprio nei giorni scorsi sono venuti ad ascoltarmi allo Small Jazz Club qualcosa come una quindicina di italiani, quasi tutti musicisti”. Ma come si ambienta un jazzista italiano nella Grande Mela? “Rapidamente. Ci si inserisce nel giro dei music club e delle rassegne concertistiche mentre ancora si impara la lingua, tra registrazioni di dischi, collaborazioni con progetti e band che andranno in tour girando il mondo. Scegliere di vivere qui non è la cosa più comoda che puoi fare nella tua vita. Visto di permanenza, costo della vitapiù alto rispetto all’Europa, rapporti umani veloci e fugaci, tutti per la maggior parte legati al business. Se decidi di rimanere devi aver trovato una tua dimensione di comodità, altrimenti impazzisci. Ma siamo tutti in piena attività, non c’e’ tempo per lamentarsi”.

Negli ultimi anni sono nati due festival di jazz italiano a New York. Uno è l’Italian Jazz Days che si svolge dal 2007 in vari jazz club di New York e Washington. Creato da Antonio Ciacca, è sostenuto anche dall’Istituto italiano di cultura newyorkese. L’altro è l’Italian Jazz Festival, organizzato dal Trumpets Jazz Club in New Jersey, ideato da Enrico Granafei. “Inoltre con Emanuele Cisi, maestro di sassofono jazz al conservatorio di Torino, abbiamo creato un ponte tra la Juilliard e il Torino Jazz Festival. Così quando torno nel mio paese rappresento una delle più importanti università d’arte americana”.

Finora Santaniello ha collezionato collaborazioni di altissimo livello: Ron Carter, bassista storico di Miles Davis, Joe Lovano, uno dei più importanti sassofonisti al mondo, di origini siciliane, Benny Golson, Joe Locke, Roy Hargrove e tanti altri. “Incontravo nei clubs le leggende del jazz, musicisti della generazione di Davis e Parker, ma anche musicisti di pochi anni più grandi di me, di grandissimo talento e già affermati nella scena internazionale, ed in pochi mesi ho imparato e fatto esperienze che non sarei riuscito a fare in 10 anni di musica in Italia. Sono subito diventato musicista a tempo pieno: 5-6 date a settimana con professionisti con cui non avrei mai immaginato di suonare”.

All’inizio Santaniello ha soggiornato con una Artist Visa, che l’immigrazione, “sempre clemente con noi italiani”, rilascia a chi dimostra di essere “extraordinary” nel campo dell’arte. Su queste basi, tre anni fa ha ottenuto la Green Card. “Perché i musicisti vanno via dall’Italia per venire qui? Per seguire il sogno americano. Qui è la Mecca del jazz. Una volta che provi New York capisci che, per quanto sia dura, questa città è un libro aperto con possibilità per tutti. Dove non ha importanza la tua affiliazione a un gruppo religioso, politico, ideologico, etnico. Al contrario dell’Italia dove tutto sembra impossibile, irraggiungibile, faticoso, lontano e legato ad una mentalità di ‘sistema’ e di appartenenza. Per assurdo, nonostante l’altissima competizione, le cose sono più facili qui”.

(foto di salvatorecorso.net)

Articolo Precedente

Fotografo a Lima. “In Perù classe dirigente giovane e boom economico”

next
Articolo Successivo

Manager a Dubai. “Noi, esperti del turismo costretti a fuggire dalla Sicilia”

next