Ignorata dalla politica, che invece di occuparsi di economia reale è affaccendata, come dimostra il caso Alitalia, per salvare banche e furbetti al seguito, l’impresa sociale nel tempo ha assunto un peso sempre più rilevante nelle dinamiche economiche e sociali, non solo del nostro Paese. Dove però non si parla di impresa sociale, se non per alludere pregiudizialmente ad un modello di organizzazione del lavoro che includa gli ultimi o ad un luogo dove fare scontare la pena in alternativa al carcere. In questo ritardo culturale pesa il forte gap che l’Italia accusa rispetto al dibattito ed al livello di elaborazione in atto da anni in Europa.

In tal senso è eloquente quanto ha affermato nella sua relazione introduttiva ad un recente workshop dedicato all’impresa sociale Carlo Borzaga, che insegna all’Università di Trento, è uno dei massimi esperti internazionali in materia e presidente di Euricse, l’Istituto di ricerca internazionale sulla Cooperazione e l’Impresa sociale: “Mentre in Italia il tema dell’impresa sociale ha continuato a non interessare la politica – nonostante abbia dimostrato capacità di reggere alla crisi, nel discorso di insediamento del governo Letta non è stato fatto alcun accenno né all’impresa sociale né più in generale al terzo settore – la riflessione su ruolo e potenzialità dell’impresa sociale e sulle politiche possibili è proseguita con una certa intensità a livello europeo”.

Eppure l’impresa sociale, anche in Italia, è un fenomeno tutt’altro che marginale. Che si è sviluppato nonostante un contesto culturale e normativo non certo favorevole a valorizzare esperienze il cui perno è rappresentato non già dal denaro, ma dal capitale relazionale tra le persone che vi operano.

I dati, richiamati nella relazione di Borzaga e che stanno cominciando a uscire dal Censimento dell’Industria e del Commercio – e in particolare sul settore non profit – relativi alla situazione al 2011 e variazioni rispetto al 2001, dimostrano in effetti come l’impresa sociale sia un attore che ha guadagnato spazio. Ciò, peraltro, nonostante il perdurante contesto economico sfavorevole.

Al 31.12.2011 le cooperative sociali censite sono state 11.264 (un valore più vicino alle oltre 13.000 censite da Unioncamere e assai superiore sia a quelle del 2001 – 5.674 – che a quelle del 2005 – 7.500 circa). La crescita nel decennio è stata del 98,5%, contro poco più del 75 registrato dall’insieme delle imprese. Il dato occupazionale è interessante, visto che queste cooperative occupano 350.000 addetti (+129,5% rispetto al 2001), quasi un terzo dell’intera occupazione generata dalle cooperative e quasi il 40% del totale occupati nel non profit (957,124).

Degna di nota è stata pure la dinamica economica e occupazione delle cooperative sociali nel corso della crisi. Dal 2007 al 2011 il valore della produzione nelle 8.255 cooperative sociali di cui sono disponibili i dati per l’intero periodo è cresciuto del 33% (anche se con un tasso di crescita in diminuzione lungo il periodo), accompagnato da una sensibile riduzione del risultato d’esercizio (da 80 milioni a 25, una riduzione del 70,2%). In altri termini, coerentemente con il proprio obiettivo, le cooperative sociali hanno cercato di mantenere, se non di incrementare, l’offerta di servizi anche accettando remunerazioni inferiori (o nulle?) e riducendo i margini.

In questo modo non solo hanno salvaguardato l’occupazione, ma l’hanno accresciuta nonostante la crisi, risultando uno dei pochissimi settori che si è mosso in controtendenza rispetto al resto dell’economia. I valori delle variazioni sull’andamento dell’occupazione nelle cooperative sociali, tuttavia variano a secondo delle fonti: si va da un +24,2% secondo i dati Unioncamere (su 8.255 cooperative) e un +18% secondo il Censis (riferiti sembra alle sole cooperative aderenti alle tre principali centrali) al +8,3% per l’Inps (ma dal 2008 al 2011 e per tutte le posizioni lavorative registrate nell’anno), ma +12,2% degli occupati dipendenti (inclusi gli stagionali). Tutto questo nonostante le difficoltà finanziarie delle amministrazioni locali. Con buona pace di chi in questi anni ha sostenuto la totale dipendenza delle cooperative sociali dal settore pubblico.

In tutto ciò appare sconcertante che non si comprenda il valore del patrimonio  rappresentato dal mondo delle imprese sociali. E così sarà, purtroppo, fino a quando Istituzioni, così come accademici, continueranno ad essere ostaggio dello schema per cui esiste impresa, degna di attenzione, solo se fa profitto.

Twitter @albcrepaldi

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