1,8 milioni di euro raccolti da Luca Cordero di Montezemolo per le famiglie delle vittime del terremoto. Ma di quei soldi ancora nessuna traccia. La manifestazione di beneficenza organizzata un anno fa dal patron della Ferrari aveva messo in vendita, tra gadget vari marchiati Cavallino, anche caschi, guanti e sotto-tute da gara autografati di Fernando Alonso e Felipe Massa, il muso della F60, la tuta da gara di Giancarlo Fisichella. E soprattutto una 599XX Evo, una berlina sportiva da pista che partiva da 1,35 milioni di euro. E ora i terremotati denunciano: “Abbiamo chiamato gli uffici ma nessuno ci ha dato risposta”. L’azienda contattata dal fattoquotidiano.it ha rimandato a dopo le ferie ogni tipo di chiarimento in proposito.

Sono trascorsi ormai quindici mesi dai terremoti di maggio 2012, quelli che devastarono l’Emilia e che provocarono la morte di 28 persone. Eppure, e sotto molti aspetti, la popolazione ferita della bassa, là tra Modena, Bologna, Ferrara e Reggio Emilia, è ancora in attesa. Si aspettano i rimborsi stanziati dallo Stato, ingolfati in una burocrazia che somiglia più a un imbuto che a un sistema “trasparente ed efficace”, si aspettano i permessi per ricostruire, e la riapertura delle fabbriche per tornare a lavorare. Ma per le famiglie di quelle 28 vittime, in realtà, l’attesa ha un “valore diverso”: “Significa essere abbandonati proprio quando ti trovi a vivere il momento più difficile della tua esistenza”. A giugno 2012, pochi giorni dopo la seconda scossa, quella del 29, Luca Cordero di Montezemolo, patron della Ferrari, presentò un’asta di beneficenza: un’iniziativa organizzata allo scopo “di aiutare le famiglie delle vittime in questo momento difficile”. L’asta andò bene, l’ex presidente di Confindustria raccolse circa 1,8 milioni di euro.

Eppure di quei fondi, i Cavicchi, i Cesaro, gli Ansaloni, i Siclari, i Serra, i Visconti, i Santucci, i familiari di Sandra Gherardi, Anna Abeti, Nerina Balboni, Gabi Ehsemann, Liviana Latini, e con loro le madri e i padri, le mogli e i mariti dei tanti morti per il terremoto, non hanno ancora visto un euro.

“Abbiamo provato anche a chiamare alla Ferrari – racconta Catia Zuccheri, vedova di Gerardo Cesaro, morto sotto le macerie della Tecopress, in provincia di Ferrara – però abbiamo ricevuto solo risposte vaghe. Intendiamoci, non è che pretendiamo quei soldi, è solo che sono stati loro a organizzare l’asta e ci chiediamo quando arriveranno”.

A Catia Zuccheri trema ancora la voce nel ricordare quella notte. Era il 20 maggio 2012 e suo marito, Gerardo Cesaro, 40 anni di lavoro sulle spalle, papà di due ragazzi, era di turno alla Tecopress di Dosso, in provincia di Ferrara. “Teoricamente avrebbe già dovuto essere in pensione – ricorda Catia – però poi con la riforma Fornero era venuto fuori che avrebbe dovuto lavorare altri 4 anni, quando ormai per lui si prefigurava la mobilità, il prepensionamento e infine, la conclusione della sua carriera lavorativa. Così, improvvisamente esodato, si era rimboccato le maniche e aveva trovato, l’anno prima, un impiego alla Tecopress. Non il massimo, certo, l’azienda era a 40 chilometri da casa, i turni erano diurni e notturni, sabato e domenica compresi, la paga bassa rispetto alla sua qualifica, però che altro si poteva fare? Così quella notte era al lavoro”. E quanto è arrivato il terremoto, il tetto gli è crollato addosso. E l’ha ucciso. “Come vedova ricevo la sua pensione, ma non ho ancora avuto diritto ad alcun risarcimento per la sua morte. Purtroppo non è stata riconosciuta come infortunio sul lavoro, e l’unica possibilità è che sull’incidente ci sia un processo, e che alla sua famiglia sia riconosciuto, in tribunale, un indennizzo”.

E tuttavia, Catia, più che a sé stessa pensa alle famiglie che nel terremoto hanno perso un figlio. Ai genitori di Nicola Cavicchi, per esempio, che per la morte del figlio, 35 anni, schiacciato dal crollo delle Ceramiche Sant’Agostino, hanno ricevuto solo quei 1936 euro versati dall’Inail. Perché per loro “la legge non prevede un riconoscimento adeguato al ruolo che oggi i figli possono avere nel bilancio famigliare – spiega Catia – la norma è antiquata, oggi i giovani non escono più di casa a 20 anni, si sposano tardi, e spesso contribuiscono, rimanendo a casa con i genitori, al mantenimento della famiglia. Com’è possibile che in Italia chi perde i propri cari sul lavoro sia trattato in questo modo?”.

Una battaglia, quella per la modifica della normativa, il Testo Unico n. 1124 del 1965 in vigore oggi per i “lavoratori assicurati e, in caso di loro morte, per i loro superstiti”, che non risarcisce il ‘danno’, ma offre “i mezzi di sostentamento venuti a mancare con la morte del lavoratore loro familiare”, che Bruno Cavicchi ha fatto sua da quella “maledetta notte del 20 maggio”. Quando Nicola salutò mamma e papà per andare a lavorare e non fece più ritorno. “Ho intenzione di scrivere al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e chiedergli di essere invitato alla Giornata nazionale per le vittime degli infortuni sul lavoro, per presentare questa proposta – racconta Bruno – per noi quei 1.936 euro sono una vergogna”.

Anche Cavicchi ha provato a contattare la Ferrari per sapere quando arriveranno i fondi. Perché un progetto su come spenderli ce l’ha già. Vorrebbe aprire un’associazione per i familiari delle vittime di incidenti mortali sul lavoro, per ricordare Nicola. “In Italia chi perde i propri cari è abbandonato a se stesso, a me invece piacerebbe dare una mano, perché so che cosa vuol dire”.

“L’altro mio figlio – racconta – ha telefonato più volte alla Ferrari ma non hanno saputo dirgli quanto tempo ci sarebbe voluto ancora. Poi, finalmente, uno degli avvocati ha parlato con un responsabile dell’azienda, è ci è stato detto che forse a settembre si sbloccherà qualcosa. Noi lo speriamo, anche perché siamo stanchi di sentire promesse”.

Dallo Stato, “che dopo la ‘sfilata’ di quel giugno 2012” – arrivarono in Emilia quasi tutti i ministri del governo Mario Monti nelle settimane successive al terremoto – “non si è più fatto vivo”, dalla magistratura, “che sta indagando, ma che purtroppo procede a rilento”. “Io ho 74 anni, ormai – precisa Bruno – e non sono per quanto ancora vivrò. Però ho un desiderio: esserci quando verrà fatta giustizia. Nicola era un ragazzo onesto, preciso, generoso, ma mi sembra che tutti lo prendano in giro. Ed è di questo che lo Stato dovrebbe vergognarsi”.

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