Barack Obama nella residenza di campagna di Camp David. Il segretario di stato John Kerry in barca al largo della sua casa a Nantucket. Così le massime due cariche del governo americano in materia di politica estera trascorrono il week-end in uno dei momenti più cruciali della crisi egiziana. I loro consiglieri e portavoce spiegano che Obama e Kerry sono costantemente in contatto con l’Egitto e seguono l’evolvere della crisi. In realtà, non pare che i vertici dell’amministrazione americana siano rimasti particolarmente scossi dal colpo di stato militare al Cairo. Venerdì, quando nelle strade della capitale egiziana migliaia di sostenitori del presidente deposto Mohamed Morsi si scontravano con l’esercito, Obama giocava a golf con un paio di vecchi amici. Kerry era, ancora una volta, sulla sua barca a Nantucket. 

La calma relativa con cui Washington ha accolto la crisi egiziana risponde a due ordini di considerazioni. Da un lato, Morsi e i Fratelli Musulmani non hanno davvero mai avuto veri amici a Washington. C’è stato un momento, lo scorso novembre, quando Obama e Morsi sono sembrati sul punto di superare vecchie diffidenze e forgiare una singolare, ma comunque effettiva alleanza. Era il momento di una nuova crisi tra Israele e Hamas, con centinaia di missili – e decine di morti – lanciati su Gaza. Morsi, dopo svariati colloqui telefonici con Obama e con l’allora segretario di stato Hillary Clinton, fu decisivo per convincere Hamas della necessità di una tregua. In quell’occasione un consigliere della Casa Bianca raccontò che Obama era rimasto particolarmente colpito dalla franchezza di Morsi, dalla sua capacità di affrontare le cose con pragmatismo. “E’ rivolto soprattutto a trovare delle soluzioni”, disse allora Obama di Morsi. 

Come prevedibile, quella “strana” relazione diplomatica durò molto poco. Troppe erano le differenze e i contrasti – politici e ideologici – che dividevano l’amministrazione USA e il nuovo governo egiziano. Obama e i suoi avevano accolto con preoccupazione l’elezione di Morsi, primo presidente islamico d’Egitto – soprattutto per le conseguenze che l’ascesa al potere della Fratellanza poteva avere sui rapporti con Israele. Le preoccupazioni si erano fatte ancor più consistenti nel settembre 2012, quando l’ambasciata USA al Cairo venne assediata da migliaia di islamici che protestavano contro un film su Maometto, e Morsi fece poco o nulla per prendere le distanze dagli assalitori (“non rappresentano l’Egitto”, disse, dopo una telefonata furibonda da parte di Obama). Il decreto con cui Morsi si auto-assegnava nuovi, ampi poteri, soprattutto ai danni dei tribunali, venne visto da Washington come la conferma dell’impossibilità di stabilire relazioni diplomatiche di amicizia e collaborazione con il nuovo regime egiziano. 

Ecco perché oggi a Washington nessuno pare turbato, o preoccupato, per il colpo di stato militare. Obama, subito dopo la deposizione di Morsi, ha reso pubblico un comunicato scritto in cui si dice “profondamente preoccupato” e in cui chiede ai militari di “ripristinare velocemente un governo democratico”. Dopo quello stringato comunicato, il presidente non è più intervenuto. Sono intervenuti, al suo posto, diversi esponenti del Congresso, dove Morsi era particolarmente inviso. Il repubblicano Ed Royce e il democratico Eliot L. Engel, alla guida della Commissione Affari Esteri della Camera, hanno affermato che “una democrazia reale richiede inclusione, compromesso, rispetto per i diritti umani e delle minoranze, sottomissione alla legge. Morsi e il suo circolo non hanno abbracciato nessuno di questi principi e hanno invece scelto di consolidare il loro potere e governare per decreto”. Più sfumato ma comunque molto chiaro il commento di un altro deputato democratico, Gerald E. Connoly, che ha spiegato che “molti di noi sono a disagio con l’idea di un intervento militare che rovescia un governo eletto democraticamente, ma c’è anche parecchio sollievo per l’uscita di scena di Morsi”.

“Sollievo” è in effetti, al di là delle dichiarazioni ufficiali e del ruolo che l’amministrazione USA sta svolgendo dietro le quinte, il sentimento più diffuso in queste ore a Washington nei confronti della crisi egiziana. Il problema è ora quello del passaggio veloce a un almeno apparente governo democratico – per questo Washington vede di buon occhio la nomina per ora congelata per il no dei partiti islamici del filo-occidentale Mohamed El Baradei alla carica di primo ministro ad interim – e l’ammorbidimento delle misure eccessivamente repressive nei confronti dei Fratelli Musulmani – ciò che potrebbe infiammare ulteriormente la situazione. Detto questo, Washington è sollevata dalla fine politica di Morsi. Anche perché – e questo porta al secondo ordine di considerazioni che spiega l’atteggiamento americano di queste ore – l’Egitto non è più per Washington un alleato fondamentale. Altri attori e altri Paesi giocano a questo punto il ruolo regionale che sino a qualche tempo fa era ricoperto dal Cairo: la Turchia, l’Arabia Saudita, l’Iran, persino il Qatar. Il governo egiziano è dunque rimasto centrale soprattutto per un aspetto: quello dei rapporti con Israele. Il Cairo è fondamentale perché garantisce una certa stabilità e sicurezza nei rapporti con l’alleato israeliano. L’amministrazione Obama ritiene che questi rapporti verranno salvaguardati da un futuro governo egiziano, sotto la tutela dei militari, e tanto basta. Il miliardo e mezzo di dollari in aiuti che Washington fornisce al Cairo ogni anno dovrebbe, a giudizio dell’amministrazione USA, stabilizzare ulteriormente la situazione e far rientrare eventuali pericoli di guerra civile per le strade del Cairo e delle altre città egiziane.

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