Ci siamo ormai assuefatti a vedere come, nei momenti detti “di crisi”, le aziende spingano sulla razionalizzazione dei costi; capita che ciò si traduca sempre più sovente in semplici e disinvolti tagli. Tipicamente i primi costi a cadere sotto la mannaia, dopo quelli drammatici sul personale, sono quelli sulla formazione, sull’innovazione tecnologica e sulla Ricerca&Sviluppo.

Moltissimi imprenditori vivono con profondo e lacerante dolore la scelta che si presenta loro tra (soprav)vivere, infliggendo ferite alla propria creatura, e morire: questa condizione però, oltre ad affondare le radici nei motivi cosiddetti esogeni, cioè esterni alla volontà dell’azienda e da essa indipendenti, è spesso il risultato di una miopia pregressa che nel suo limitato visus inquadra da sempre l’azienda unicamente come un mezzo per fare fatturato e profitto. Non che l’obiettivo sia accessorio (naturalmente senza di esso non esisterebbe l’azienda) ma se ogni azione e scelta aziendali sono rivolte esclusivamente al suo perseguimento, la sentenza di condanna è pronunciata: pensare solo a mettere fieno in cascina non paga. Lo stiamo imparando: aziende prima solide e con capitalizzazioni di tutto rispetto, poi messe in ginocchio da una gestione rigida, denaro-centrica e da condizioni interne disgregate e conflittuali; poche aziende superano i 40 anni di vita ( f.te: ricerca Royal Dutch/Shell Group Planning) o sopravvivono al fondatore e sono quelle che considerano loro stesse come un organismo vivente, bisognoso cioè non solo di “nutrimento” ma anche di sapersi adattare all’ambiente.

Tagliare i costi sulla formazione è un un vero e proprio errore strategico: colpisce a morte la flessibilità, la caratterizzazione e innovazione del prodotto, la gestione del cambiamento e il livello di performance degli operatori (la famigerata produttività tanto inseguita da imprenditori e pianificatori). La formazione va vista (e vissuta!) come un vero e proprio investimento, al pari di qualunque altro investimento di capitale ammortizzato nel tempo; più spesso invece, molti imprenditori in crisi da “margine di profitto”, vi si affidano come una soluzione rapida dal guadagno immediato salvo poi disdegnarla per essersi rivelata per ciò che è: un’azione da svolgersi preventivamente.

Circa quaranta giorni fa mi contatta il titolare di un’azienda del centro Italia che opera nel settore delle energie rinnovabili; dice che gli sono stato consigliato da un mio cliente, suo amico, e mi invita a conoscerci. Certo, volentieri. La sua è un’azienda “familiare”, come spesso sono quelle italiane, la famosa spina dorsale del paese. E’ in forte crescita (bellissima controtendenza) ma ciò sta creando qualche problema («Avercene però, di problemi così…», mi dice): difficoltà di comunicazione tra i membri dello staff, elevati livelli di stress, assistenza commerciale che perde puntualità ed efficienza, coordinamento dei lavori di cantiere non all’altezza dello standard abituale, diminuita performance della rete di vendita.

Siccome è il mio lavoro, mi chiede se ho qualche opinione su cosa fare per migliorare le cose: immagino di sì, dico, ma mi faccia prima conoscere bene l’azienda e la sua situazione e poi vedremo.

Dopo un po’ me ne faccio un’idea: mi persuado che l’azienda si trovi in quell’esatto punto della curva di crescita in cui o fa il “salto di qualità” gestionale o inizierà a ripiegarsi su se stessa. Matematico. Garantito.
Una venticinquina di giorni dopo gli faccio avere una prima descrizione del piano che ho in mente, trentasei pagine in cui viene illustrata e argomentata la logica dell’intervento organizzativo.
Perfetto, è ciò che cercava: ora deve solo capire se preferisce investire in questa operazione o in una fiera di settore cui sta valutando di partecipare tra poche settimane…

Mi domando: sarà un’obiezione per tirare sul prezzo o il tizio è veramente in dubbio ?
Comunque stiano le cose non mi meraviglio più di tanto perché ho imparato che questo è un atteggiamento fin troppo diffuso tra i nostri imprenditori; dicono che sia figlio del momento storico (in parte sicuramente vero, in parte alibi) ma resta il fatto che la bulimia da fatturato è una delle cause del mancato consolidamento delle aziende italiane: i cambi generazionali, la mancanza di una strategia di lungo periodo, l’assenza di visione sistemica, la rigidità di ruoli e competenze, l’asfittica concentrazione del potere decisionale, la gestione approssimativa delle relazioni interne ed esterne e un’identità aziendale fumosa sono alcune delle concause.

A proposito del caso raccontato, per esempio, mi vengono delle domande: chi gestirà l’afflusso di ulteriori commesse che dovessero venire dalla partecipazione alla fiera ? Chi organizzerà sopralluoghi, progettazione, preventivi, campionature, installazioni, direzioni di cantiere, amministrazione, rapporto con i clienti, autorizzazioni, collaudi, istanze post-vendita ecc. ? Se ne occuperà la stessa struttura che tanti pensieri ha già iniziato a dare? I nuovi clienti saranno soddisfatti ? Daranno giudizi positivi ? Se ne parlerà bene o male sul mercato? Il marchio aziendale ne trarrà beneficio ?
E, alla fine, sarà stata una buona idea prendere tutto il possibile, il più che sia possibile ?

In Italia, oltre che una classe politica e dirigente degna di questo nome ed a cui non si possono perdonare le colpe che conosciamo, manca una cultura manageriale sana, una scuola che non sia quella della (pur straordinaria) italica inventiva e del miope adattamento day-by-day.

Le crisi arrivano, un po’ come le malattie, più o meno gravi; un organismo, per sopravvivervi, ha bisogno di essere sano, con buoni anticorpi.

Gianluigi Merlino

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