Certo adesso è facile dire che Bersani sta andando a sbattere. Ma, cinque mesi fa, non era impossibile compiere l’impresa di portare alla vittoria il centrosinistra evitando all’Italia il baratro del non governo.
In sintesi: anziché autopromuoversi leader del Pd forte dentro e debolissimo fuori, nella giungla dello scontento popolare, Bersani poteva regalare il partito a Renzi e ritirarsi umilmente nel segretariato.

Così il Pd avrebbe guadagnato qualcosina al centro, e soprattutto avrebbe tolto a Grillo una certa dose di delusi. Così trovare qualche poltrona in più per avviare un esecutivo sarebbe stato più semplice. Così l’idea di un Parlamento nuovo, con renziani e giovani turchi a fianco dei grillini nel contrastare il cadente Pdl, sarebbe diventata un’evidenza anagrafica, fisica, visiva e visionaria.

Per Bersani cedere la premiership sarebbe stato un sacrificio amaro, tafazzesco, eppure salvifico. Un terremoto interno, con regolamento di conti, ma arginato dalla dura necessità: o così o saremo travolti. Un leader, uno che ha capito l’Italia e gli ultimi cinquant’anni di storia, lo sapeva fare un discorso così.

Invece, lo tsunami è arrivato. E adesso il partito, se Bersani va a sbattere, si spaccherà. Ma, col senno di poi, non si smacchiano i giaguari.
Ed è un twitter a dentoni che nel giro di mezz’ora scrive il tuo epitaffio:

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