Il sorriso è quello di chi cerca un premio di consolazione: “Abbiamo ottenuto un risultato soddisfacente, tre milioni di persone hanno votato per noi”, dice Mario Monti a tarda sera, quando raggiunge il comitato elettorale al terzo piano di un edificio storico del centro di Roma, proprio davanti a Palazzo Chigi. “Ci stimavano un po’ più alti”, ammette. E anche lui ci sperava.

CONVINCERLO a parlare è stata un’impresa difficile per i suoi. Il leader di Scelta civica è rimasto chiuso per tutto il giorno nel suo appartamento da premier, godendoselo per quelle che potrebbero essere le ultime ore. Mentre nelle stanze di fronte non c’è mai stata aria di festa. Il portavoce nazionale della lista, Lelio Alfonso, è l’addetto a mantenere un basso profilo in diretta tv. Andrea Romano, candidato alla Camera in Toscana, fa training autogeno: porta con sé il libro “Keep calm and carry on, good advice for hard times”, mantieni la calma e vai avanti, consigli per i tempi duri. Potrebbe averne bisogno. Dice che “il problema è la legge elettorale”. Lo ribadisce anche Monti la sera: “Non esiste Paese in cui sia così marcata la sproporzione tra il risultato elettorale e la realtà per colpa di una legge che ha avuto nella letteratura e nella prassi il nome che si merita”.

Una stoccata al Partito democratico. Infatti la “salita” in politica del Professore con il Porcellum è valsa solo un pugno di parlamentari. Nella lotta per la sopravvivenza il presidente del Consiglio si è rivelato un cannibale che non ha esitato un momento a fagocitare i suoi compagni di viaggio (Fli e Udc) per salvare la pelle. C’è riuscito, ma ha pagato un prezzo troppo alto per non arrivare nemmeno all’obiettivo che si era prefissato in partenza: diventare l’ago della bilancia di una futura maggioranza di governo. Non è più l’uomo della “Provvidenza europea” e dietro di lui c’è lo spettro del “rospo”, Lamberto Dini, dalla Banca d’Italia al governo e poi in disgrazia, oscillante tra centro-destra e centrosinistra.

IL DIECI PER CENTO a Montecitorio (45 deputati) e il nove per cento a Palazzo Madama (una ventina di senatori) non bastano a proporsi come “terza gamba” di una qualsivoglia maggioranza. La speranza cede il passo alla realtà. Niente premiership (a meno di una grande coalizione), niente ministero dell’Economia, un miraggio il Quirinale. “Ora un governo va garantito, serve la massima trasparenza tra forze politiche e responsabilità in un momento molto grave”, dice Monti, senza rivelare il piano che ha in mente. Per non farlo apparire come uno degli sconfitti, nel tardo pomeriggio Enrico Bondi, Andrea Riccardi e Mario Sechi attraversano la strada e lo convincono a parlare con i giornalisti. Difficile non definirlo deluso. “Non è vero, abbiamo preso il 100% in più delle scorse elezioni, non possiamo considerarla una sconfitta” ribattono i suoi al rientro dalla riunione a Palazzo Chigi, accanendosi sulle vittime di questa tornata elettorale: Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, che hanno perso quasi tutto. “Per quanto ci riguarda è impossibile nascondere un risultato totalmente negativo ed è inutile recriminare – dichiara il presidente della Camera, senza nascondere il tremendo flop – per l’Italia temo che il peggio debba ancora venire”. Per lui invece è già arrivato, è fuori dal Parlamento. Casini entra grazie a un posto da capolista in Basilicata dove la lista raggiunge l’8,33% ma l’Udc non tocca il 2% alla Camera dove può sperare solo in qualche seggio residuale. “Abbiamo avuto un risultato dignitoso ma al di sotto delle aspettative, abbiamo fatto i donatori di sangue” dice Casini. Vittime del cannibale, a cui però non basta lo scalpo degli alleati per realizzare il suo sogno: non traslocare.

di Caterina Perniconi

Da Il Fatto Quotidiano del 26 febbraio 2013

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