Le parole diventano tese, distorcono, perdono significato e si svuotano. Accade. E’ difficile raccontare lo strazio, la sofferenza, il dolore senza fine. Giuseppina Di Fraia aveva 52 anni e una vita difficile. Stringeva i denti e sgobbava. Pensava solo alle sue due figlie di 23 e 14 anni, i suoi gioielli. Umiliazioni e offese. Scenate e botte. Scariche d’ira. E alle frequenti ondate di rabbia e violenza opponeva il silenzio. Non rispondeva. Tratteneva le lacrime. Viveva in apnea cercando di tenere unita quella parvenza di famiglia.
Nonostante tutto, ogni santa mattina Giuseppina, fattosi il segno della croce, andava a lavoro: prestava servizio come colf. I soldi che guadagnava le occorrevano per garantire un piatto caldo a tavola. Lo scorso 11 febbraio mentre Giuseppina andava a lavoro, in via Vicinale Monti a Pianura, il marito l’ha inseguita e investita con la sua Fiat Tipo. Ad assistere alla tragica scena alcuni passanti. Neppure credevano ai loro occhi. Non è possibile. Ci siamo sbagliati. Ma che andiamo a pensare. L’uomo invece freddo, distaccato e strafottente con faccia tosta e agire impunito li rassicura: si è trattato solo di un incidente. Lo giura. Non era sua intenzione investirla, ma che voleva solo parlarle e che l’avrebbe immediatamente condotta in ospedale e si sarebbe preso cura di lei. Un bastardo. Una chiavica. Un vile. Invece, pochi metri dopo, l’escalation di inaudita violenza. Ferma l’auto. Trascina la moglie fuori, tirandola per i capelli. La cosparge di benzina. Le dà fuoco. Giuseppina brucia a terra. E’ una torcia umana. Le grida sono strazianti. La scena è orripilante. Lui l’osserva. Risale sull’auto e si allontana. Non è accaduto niente. Andava fatto. E’ giusto così. Assurdo. Senza parole. Mancano le frasi. Solo rabbia e voglia di una giustizia che sia davvero giusta.
Giuseppina è in condizioni disperate. I medici dell’ospedale Cardarelli – reparto dei grandi ustionati – fanno di tutto per strapparla alla morte. L’agonia di Giuseppina è atroce. Le ustioni di terzo grado le hanno divorato oltre la metà della superficie del corpo. Dio, se esisti davvero chiamala a te. Concedile la pace, la felicità, la serenità che non ha mai avuto. Venerdì a mezzogiorno il suo cuore si è fermato. Mamma Giuseppina non c’è più accanto alle sue figlie, l’unica ragione e speranza che la teneva in vita. Lei non ha mai trovato la voglia e la forza di denunciare quel marito rissoso, iracondo e assassino. Resta una donna che neppure si è accorta dei flash mob “globali”, dei dibattiti sul femminicidio, della pubblicità progresso.
Giuseppina era sola e chi conosceva i suoi problemi coniugali recitava a se stesso l’ipocrita adagio: “Tra moglie e marito è meglio non mettere il dito”. Il Comune di Napoli ha già annunciato che si costituirà parte civile nel processo e spero che lo facciano anche le associazioni, i sindacati, i napoletani e Luciana Littizzetto. Il suo monologo contro la violenza sulle donne nel corso del Festival di Sanremo è stato importante: ha ridato senso a quelle parole disidratate dalla cronaca della realtà. La Littizzetto, cara Giuseppina, le ha recitate anche per te: “Un uomo che ci mena non ci ama. Mettiamocelo in testa. Salviamolo nell’hard disk. Vogliamo credere che ci ami? Bene. Allora ci ama MALE. Non è questo l’amore. Un uomo che ci picchia è uno stronzo. Sempre. E dobbiamo capirlo subito. Al primo schiaffo. Perché tanto arriverà anche il secondo, e poi un terzo e un quarto. L’amore rende felici e riempie il cuore, non rompe costole e non lascia lividi sulla faccia…Pensiamo mica di avere sette vite come i gatti? No. Ne abbiamo una sola. Non buttiamola via!”.
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