E’ stato depositato al gip Riccardo Ricciardi il documento con il quale i pm di Palermo hanno chiesto di distruggere, come ordinato dalla Consulta, le intercettazioni delle conversazioni tra l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino e il capo dello stato Giorgio Napolitano. Il giudice dovrà adesso nominare un perito per la procedura di distruzione che avverrà senza il contraddittorio delle parti come disposto dai giudici della Corte Costituzionale. Il perito dovrà estrapolare le conversazioni dal server nel quale sono contenute, poi verranno ascoltate dal giudice e infine eliminate. La procedura si dovrebbe concludere entro un paio di settimane.

Il 15 gennaio scorso i giudici avevano depositato le motivazioni del verdetto. Secondo i giudici il presidente della Repubblica, in quanto “supremo garante dell’equilibrio dei poteri dello Stato”, non è mai intercettabile. Le sue conversazioni sono inviolabili anche in presenza di reati comuni. In quarantanove pagine i giudici della Corte Costituzionale avevano spiegato perché il capo dello Stato è intoccabile, perché i magistrati avrebbero dovuto distruggere immediatamente le conversazioni di Napolitano con Mancino e anche perché “la semplice rivelazione ai mezzi di informazione dell’esistenza delle registrazioni costituisca un vulnus che deve essere evitato”. Il presidente non può essere assimilato a un ministro, né a un parlamentare e le sue funzioni “formali” e “informali” , come “incontri, comunicazioni e raffronti dialettici”, godono di una “riservatezza assoluta”.

Il verdetto viene criticato da uno dei costituzionalisti che hanno rappresentato la Procura di Palermo davanti alla Consulta. Per Giovanni Serges è stata scritta una pagina “non esaltante” nella storia della giustizia costituzionale. La sentenza della Consulta “vorrebbe essere una grande lezione di diritto costituzionale, ma si rivela, nel suo complesso, frutto di un argomentare forzato e largamente contraddittorio” dice all’Adnkronos. La sentenza “non mi sembra particolarmente soddisfacente. Anzi – sottolinea che è professore ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico all’Università ‘Roma Tre’ – essa rappresenta forse, per l’evidente imbarazzo in cui si è imbattuta la Corte, uno dei momenti meno esaltanti nella storia della giustizia costituzionale”. Al contrario, rileva, “gli argomenti che erano stati posti a sostegno della posizione del pubblico ministero erano argomenti tutti fondati su di una applicazione rigorosa della Costituzione e su di un’attenta ricostruzione della posizione del Presidente della Repubblica nel nostro ordinamento” . Una sentenza che non avrebbe neanche dovuto pronunciarsi nel merito perché, come sostennero gli avvocati difensori dei pm di Palermo, il ricorso presentava più di un profilo di evidente inammissibilità. Anzi, le motivazioni che respingono la richiesta di inammissibilità del ricorso del Quirinale avanzata dai pm sono forse “le meno convincenti di tutte”. In realtà, spiega Serges, “la Corte forza il ragionamento e, per superare l’eccezione di inammissibilità, giustifica, ad esempio, la modificazione della domanda originariamente contenuta nel ricorso dell’Avvocatura (con la quale si richiedeva che fosse lo stesso pm e non il giudice a distruggere le intercettazioni) così contraddicendo un principio processuale di carattere generale riconosciuto in precedenti decisioni”.

Nelle motivazioni, rileva poi il professore, entrando nel merito della questione, la Consulta “individua tra le prerogative del presidente quella dell’assoluta riservatezza di tutte le sue conversazioni, senza distinzioni tra quelle funzionali e quelle personali. E, soprattutto, non distingue neppure tra intercettazioni dirette, indirette e casuali. E’ uno degli aspetti più criticabili della sentenza visto che la vicenda parte dalla intercettazione casuale del Capo dello Stato”, come, tra l’altro, la Corte stessa riconosce. Motivando la sentenza in questo modo la Corte, osserva Serges, “aggiunge un’ulteriore prerogativa costituzionale al Presidente rispetto a quelle che sono già esplicitamente disciplinate. E la stessa Corte aveva in precedenza affermato che le prerogative previste dalla Costituzione non potessero mai interpretarsi in maniera estensiva. Per superare questo ostacolo, che pure discende dalla sua giurisprudenza, la Corte afferma che questa ulteriore prerogativa sarebbe implicita, e si desumerebbe sulla base di una ‘presunzione logica‘ ricavabile dal ruolo che la Costituzione assegna al Presidente e, soprattutto, dai suoi poteri informali, cioè da poteri non espressamente previsti in Costituzione ma affermatisi in via di prassi. Ma le prerogative, essendo strumenti posti a garanzia della funzione e che derogano al generale principio di uguaglianza, sono istituti che devono essere espressamente contemplati dalla Costituzione”. La stessa Corte, sottolinea, “riconosce che, quando pure si tratti di garanzie implicite desumibili però da una precisa norma costituzionale (quale è quella richiamata nella stessa sentenza della inviolabilità della sede del Parlamento, che discende dall’art 64 Cost.), la prerogativa è disciplinata dalla legge o dai regolamenti degli organi costituzionali. Non è invece individuabile sulla base di mere presunzioni logiche. Nel caso di specie, peraltro, a me pare che si tratti non già di una prerogativa ‘implicita’, bensì di una prerogativa ‘nuova’“.

“Per dare concretezza a tale supposta prerogativa nel caso di specie continua Serges – la Corte richiama l’art.271 del codice di procedura penale” il quale, però, prevede che non possano essere utilizzate solo le intercettazioni delle conversazioni di ministri di confessioni religiose, avvocati, notai, investigatori privati, medici, farmacisti, ostetriche ed eventuali altri esercenti ai quali la legge riconosca espressamente il segreto professionale previsto dall’art. 200 cpp; “una disposizione dunque – spiega – che in alcun modo è riferibile al Presidente. Così facendo la Corte sembra voler colmare una supposta lacuna legislativa. In gergo tecnico potrebbe dirsi che si tratta di una sorta di sentenza ‘additiva mascherata’, cioè di una decisione che riconosce la incostituzionalità di una disposizione nella parte in cui essa ‘non prevede’ qualcosa”. Ma qui, rileva, “siamo in sede di conflitto tra poteri e per giungere ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 271 la Corte, tutt’al più, avrebbe dovuto sollevare la questione di costituzionalità dinanzi a se stessa, come molti commentatori avevano suggerito. La decisione della Corte, peraltro, può avere conseguenze molto gravi perché presume, in realtà, che le intercettazioni, pur se casuali, siano coperte da questa riservatezza assoluta, e debbano essere distrutte anche nel caso in cui contenessero una notizia di reato”. Inoltre va osservato che “non viene presa in considerazione ed è sostanzialmente ignorata la posizione costituzionale del pubblico ministero” che, come recita l’articolo 112 Cost., “riserva al pm l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale. L’affermazione dell’esistenza di questa nuova prerogativa del Presidente, aggiunge Serges, “amplia oltremisura le prerogative” del Capo dello Stato. “Configurata in questo modo la garanzia non riguarda più soltanto l’esercizio delle funzioni del Presidente ma anche la persona stessa del Presidente. Si va ben oltre la figura del Presidente delineata dalla Costituzione all’art. 90. E questo rappresenta un ulteriore rischio”. L’accostamento del Capo dello Stato al sovrano dei regimi monarchici, cui aveva fatto un breve cenno la Difesa nella propria memoria, dove si metteva in rilievo come l’accoglimento del ricorso avrebbe attribuito un privilegio simile alla ‘inviolabilità regia’ in capo al Presidente della Repubblica, e che ha suscitato non poche polemiche, “non avrebbe dovuto scandalizzare”. 

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