Vente a Alemania, Pepe, vieni in Germania, Pepe. Si chiamava così un famoso film spagnolo che nel 1971 mostrava il lato tragicomico della migrazione iberica. Raccontava di come, in piena dittatura franchista, stritolati dalla crisi economica e senza opportunità, molti lavoratori cercavano un lavoro e un futuro migliore in Francia, Svizzera e soprattutto in Germania. Quattro decenni dopo, la trama diretta da Pedro Lazaga torna d’attualità. La Spagna è di certo un Paese diverso, ma affronta ancora una volta l’incubo della migrazione.

Quelli che abbandonano Madrid, quasi 55mila da gennaio a ottobre secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica – un 21,6 per cento in più rispetto all’anno scorso -, non sono però manodopera a basso costo, adatti alle fabbriche del nord Europa, come era la generazione di Pepe nel film degli anni Settanta. Sono uomini e donne che hanno in valigia un titolo universitario o un dottorato, parlano più lingue e hanno viaggiato, ma che si ritrovano in una terra dove la parola lavoro è diventata quasi un’utopia.

I dati ufficiali parlano chiaro: avvocati, ingegneri, antropologi, economisti, architetti, giornalisti, designer, tra i 30 e i 45 anni, che non riescono più a trovare impiego nei loro settori in uno Stato devastato da una combinazione perversa di crisi economica, bolla immobiliare, sperpero pubblico e cattiva gestione politica. Emigranti 2.0 con skype, carta di credito e iPhone. Ma pur sempre migranti, in fin dei conti.

Così, per esempio, il numero di spagnoli che lavora in Germania è aumentato del 12 per cento solo nell’ultimo anno e le autorità tedesche continuano a reclutare da Madrid personale qualificato di cui hanno bisogno anche in campi come sanità, ingegneria, insegnamento e turismo. E non solo. Da qualche tempo la Spagna guarda di nuovo al Nuovo mondo. In particolare al Messico. Non ci sono cifre ufficiali sul numero di giovani iberici che sono arrivati nel Paese latino dall’inizio della crisi, perché molti sono entrati col visto da turista. Ma dati parziali sì. Secondo l’Istituto migratorio di Città del Messico 7.630 spagnoli hanno ottenuto un permesso di lavoro nel Paese. E per l’Istituto nazionale di statistica di Madrid dal 1 gennaio 17.958 giovani, tra i 20 e i 34 anni, vivono in Messico. 

Del resto in terra iberica l’idea che il Paese sudamericano offra opportunità sta crescendo: il Fondo monetario internazionale ha previsto che il Messico, entro il 2017, diventerà la prima potenza economia di lingua ispanica. Da una parte, insieme al Brasile, è uno dei Paesi emergenti dell’America latina. Dall’altra la comunanza linguistica e un tasso di disoccupazione di appena il 5 per cento, hanno reso Città del Messico una capitale molto ambita dai giovani iberici in cerca di occupazione. A maggior ragione se i dati dell’Eurostat di ottobre raccontano di una disoccupazione giovanile pari al 55,9 per cento, dove in Europa ormai dietro a Madrid c’è solo Atene.

Ma in quella che è stata definita la terza ondata migratoria – la prima alla fine del XIX secolo, la seconda con la guerra civile del ’39 – non sono solo i cittadini a spostarsi. In accordo con il ministero dell’Economia, gli investimenti esteri diretti provenienti dalla Spagna, nel 2011, hanno superato i 3 miliardi di dollari. E il Messico è diventato uno dei Paesi preferiti, visto che, dal 1999 al 2012, sono nate oltre quattromila filiali locali di aziende europee.

Di spagnole la Camera di Commercio messicana ne ha contate 315, come Iberia, Zara, Gas Natural, Repsol, Seat, Telefónica, Gruppo Santander. Ma già altre hanno fatto le prime carte bollate per approdare in territorio azteco nel 2013, come ha spiegato alla stampa Francisco Garzón, consigliere della Commissione economica e commerciale spagnola in Messico: “Negli ultimi mesi abbiamo visto un gran numero di imprese iberiche interessate a commerciare e investire in Messico. Le aziende hanno capito, purtroppo, che per sopravvivere devono uscire fuori”. E con loro anche i giovani migranti.

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