Il giaguaro è stato smacchiato e la porta di palazzo Chigi è aperta. Arriva da Bettola, tremila abitanti divisi dal torrente Nure, sui colli piacentini, il prossimo probabile premier italiano. I conti si fanno alla fine, è vero, e la campagna elettorale deve ancora iniziare. Però sembra venuto il tempo di Pierluigi Bersani, sessantuno anni, figlio di Giuseppe, benzinaio al paese, laureato in filosofia con lode e una tesi su papa Gregorio Magno. “Sono un giovane di lungo corso”, ha detto. Aveva i brufoli in faccia e già sedeva su una poltrona, vicepresidente della comunità montana. Poi sempre col naso all’insù, a scalare posizioni e guardare in cielo, lì dove sorge sempre il sol dell’avvenire: assessore regionale, presidente, deputato e ministro e eurodeputato. Vicino al potere e vicino alle coop perché le cose che contano per Pier Luigi e per ogni buon dirigente emiliano sono due: il partito e l’industria. Nato e vissuto nel cuore del motore della sinistra italiana, militante ortodosso, perfetto nel Pci di allora e poi in prima linea in tutte le sue filiazioni. Pragmatico, riformista, aggiustatore per indole. Vicino alle Coop, perchè di sola passione si muore e vicino – anzi dentro – all’altra grande fabbrica della politica italiana, Comunione e liberazione. “Occhetto voleva chiamare il nuovo partito Comunione e Libertà”, disse agli amici ciellini, segnando il suo ruolo di partecipe cofondatore.

Fattore “ragazzino”: il gioco di chi rottama chi – Un diesel, un passista che sa piazzare ogni volata, e spunta quando c’è bisogno e giunge fin dove ha deciso. Oggi vince la battaglia più importante e insidiosa: vince sulla gioventù di Matteo Renzi, il mondo nuovo e ostile che gli si è parato improvvisamente davanti. Accettata la sfida, è stato un successo. “Ho fatto la figura del ragazzetto ambizioso” ha detto Matteo. È un’ammissione potente di inadeguatezza e – soprattutto – è ciò che presumibilmente ha sempre pensato di lui Pier Luigi. Il rottamatore è stato rottamato dunque? Un poco sì, un poco no. Da oggi “la ditta” ha un unico socio di maggioranza e si chiama Bersani. E un unico socio di minoranza e si chiama Renzi. Potrà accadere che piano piano il primo faccia accomodare il secondo nel consiglio di amministrazione. “Con Renzi si sono liberate energie nuove e insieme si sono depositate anche delle scorie. Il nostro compito è quello di raccogliere le energie nuove e separarle dalle scorie”. È il pensiero di Miguel Gotor, il consigliere del segretario. Ed è quello che accadrà. Il congresso sarà alla fine del prossimo anno, dopo le elezioni. Con questa legge elettorale il segretario deciderà ogni candidatura e da bravo capostazione smisterà gli incarichi. Per la prima volta nel partito non ci saranno né D’AlemaVeltroni, e non è poca cosa per Bersani. La sparizione dei due latifondisti eterni, i duellanti che hanno dominato il partito, a volte però sfiancandolo, è l’effetto gradevole della discesa in campo di Renzi. Senza di lui sarebbe stato possibile il passo indietro? E con D’Alema fuori dal Palazzo almeno altri cinquanta dirigenti, della categoria renziana dei “dinosauri”, saranno messi in pensione. Sarà tutta la prima linea del partito a dover essere rigenerata.

“Si apre un grande spazio politico per Matteo, ed è naturale che questa battaglia resti un investimento qualificante per il futuro. Il terreno è arato, logico che domani si raccoglierà qualcosa. Questo partito è già stato trasformato, ed è merito di Matteo”. Così Ermete Realacci, che ha condiviso col sindaco di Firenze la speranza di ribaltare tutto. Il tempo non è tiranno questa volta, e dirà se e con quali margini Bersani saprà imporsi nella contesa finale. Se lo farà stringendo un patto con Casini oppure se riuscirà a tenere le mani un pochino più libere. Dal come vincerà si conoscerà il suo destino e quello di Mario Monti. Al Quirinale, come vorrebbe il segretario del Pd, oppure da superministro dell’Economia. Contano i voti, che poi si pesano. “Il consenso è come una mela dall’albero, bisogna scuoterlo e avere un cestino che le raccolga tutte”, dice Bersani. Più mele prenderà e più il rischio che il professore gli sfili la sedia di palazzo Chigi si allontanerà. Avere la vittoria in tasca non porta mai bene, e Bersani avrà tempo per condire di metafore il suo pensiero sempre assai denso di immagini. Non starà con le mani in mano, “mica siam qui a pettinare le bambole?”. Per adesso ha il passerotto in mano. Il problema è domani: prendere quel tacchino che è sul tetto.

da Il Fatto Quotidiano del 3 dicembre 2012

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