Se avessi potuto farlo, giovedì sera, avrei votato sì, nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, all’ammissione della Palestina come Stato osservatore non membro: perché non penso sia uno strappo dalle conseguenze catastrofiche, visto che l’Onu, il G8, la Ue, il Quartetto hanno i cassetti pieni di documenti che preconizzano esistenza e convivenza di due Stati, Israele e la Palestina, l’uno in pace con l’altro e ciascuno sicuro dentro i propri confini.

Da quest’angolo, il voto contrario di Stati Uniti e Israele, che tale prospettiva hanno da tempo accettata, appare difficile da condividere; e, soprattutto, delude. Non sorprende il consueto andare in ordine sparso dell’Unione europea agli appuntamenti internazionali in cui ci si conta. Però, le ragioni del no di Stati Uniti e Israele si possono capire. Credo che le diplomazie americana e, in misura minore, israeliana siano coscienti di non essere, stavolta, dalla parte della ragione e della storia: quando ci si ritrova in 9 a votare no, su un totale di quasi 190 Paesi, soli con Canada e Repubblica Ceca – e fin qui vada – e con Isole Marshall, Micronesia, Narau, Palau, Panama, che sono poco più di protettorati statunitensi, qualche dubbio sulla validità della scelta viene.

Specie se, a fronte, ci sono 138 sì e 41 astenuti. L’ambasciatrice Susan Rice, possibile futuro segretario di Stato americano, dice che la risoluzione “cade male ed è controproducente” e non fa altro che costituire “un nuovo ostacolo sul cammino verso la pace”. Concetti ribaditi dal segretario di Stato Hillary Clinton: “Abbiamo ben chiaro che solo attraverso negoziati diretti tra le parti israeliani e palestinesi potranno arrivare alla pace”. Però, la reazione degli Usa non ha la virulenza che ebbe l’accettazione della Palestina all’Unesco, quando Washington piantò in asso l’organizzazione e le tagliò i fondi: facciata oggi, sostanza allora. E l’ambasciatore di Israele all’Onu, Ron Prosor, considera il voto “un passo indietro per la pace”, perché “l’Onu chiude gli occhi sugli accordi di pace senza conferire nella sostanza dignità di Stato” all’entità palestinese. Ma il governo israeliano non tira conseguenze drastiche da dichiarazioni dure.

Gli Stati Uniti del presidente Obama non sono certo in sintonia con l’Israele del premier Netanyahu. Nella campagna elettorale per le presidenziali Usa, le preferenze d’Israele andavano al candidato repubblicano Mitt Romney. E nella recente fiammata fra israeliani e palestinesi della Striscia di Gaza, Obama ha sì ribadito il diritto di Israele a difendersi, ma ha pure invitato Netanyahu alla moderazione e ha lavorato con il presidente egiziano Mohamed Morsi per evitare l’avvio di operazioni di terra e giungere alla tregua che, per ora, tiene. Certamente, Obama non vuole provocare una frattura con Netanyahu, che potrebbe irrigidirlo ulteriormente, rendendo il percorso della pace ancora più lento; né vuole rompere con la prassi consolidata degli Stati Uniti di evitare l’isolamento di Israele. Ma non s’è speso molto perché la risoluzione non passasse.

Il Fatto Quotidiano, 1 Dicembre 2012

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