Maledetti giornalisti, pagherete tutto e con gli interessi. Non è una promessa minacciosa, è una certezza legislativa. Fate i ficcanaso? Disturbate il manovratore? Vi piace lo scoop? Allora beccatevi il bavaglio cucito a mano. I punti sono ricamati con scrupolo e non ci sono smagliature nel tessuto. La stoffa è uniforme, tesa e resistente. Praticamente perfetto. Si, perché il disegno di legge sulla diffamazione che langue al Senato tra stop and go, tra ricatti e ammorbidimenti è diventato lo snodo che condizionerà e condiziona il lavoro di chi davvero vuole onorare la professione di cronista.

Una legge in discussione che sembra diventata l’ennesima trappola ordita dal partito trasversale anti-stampa presente in Parlamento per togliere di mano la penna ai giornalisti e chiudere per sempre il bloc notes. L’“agguato” per ora non è riuscito anche se il rischio è stato ed è concreto. Il testo inizialmente licenziato il 23 ottobre 2012 dalla Commissione Giustizia del Senato, così com’era, prevedeva in caso di diffamazione a mezzo stampa non più il carcere – unico paese moderno e libero ad aver ancora questa pena medievale – ma una multa da 5 mila a 100 mila euro, rettifica anche per testate non registrate (vedi blog), interdizione dalla professione, editori chiamati a rispondere per il reato di diffamazione e sospensione dai fondi e contributi per l’editoria. Insomma se passava oppure passa al Senato così com’era e com’è il provvedimento stavamo e stiamo di fronte ad una legge-killer praticamente i cronisti della Siria e della Russia sono molto più liberi di esercitare la professione rispetto a quelli italiani.

Alla fine i falchi apparentemente hanno desistito. Per il rotto della cuffia si è e si era trovato un accordo che graziava i giornalisti: niente più galera e multe più basse. Quella massima dimezzata a 50mila euro, niente interdizione della professione, rettifica sulla carta stampata che dovrà occupare la stessa pagina e lo stesso spazio dell’articolo incriminato. Mentre sui siti web la rettifica doveva scattare solo per le testate giornalistiche, graziati i blog. Infine gli editori non dovrebbero più rispondere del reato di diffamazione e non saranno “toccati” i fondi per l’editoria. Nella prima bozza di legge – addirittura – diventava off limits anche scrivere libri d’inchiesta ma paradossalmente anche quelli storici. In caso d’intoppo occorreva pubblicare eventualmente rettifiche su rettifiche senza commenti e attendere in media sette anni per incassare un giudizio nel merito delle contestazioni.

A quel punto c’è da domandarsi: chi cavolo lo pubblicherebbe un libro d’inchiesta? Un esempio calzante è il caso del libro “Il Casalese” edito dalla casa editrice Centoautori che narra le gesta dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino e family, testo finito in un contenzioso giudiziario con una richiesta di sequestro, distruzione del libro e un risarcimento danni quantificato in un milione e duecentomila euro. Una follia bella e buona. Per ora un sospiro di sollievo apparente, il percorso della normativa è ancora lungo e potrebbe subire dei ritorni di fiamma restrittivi. Com’è nei fatti è accaduto. Si navigava a vista e il fosso sembrava scansato. Invece mentre sembrava che si fosse trovata l’intesa su una versione “annacquata” della cosiddetta “Salva- Sallusti”, l’aula del Senato ha rinviato a lunedì prossimo l’esame degli emendamenti proprio quando stava per affrontare l’argomento più spinoso: la riduzione delle multe per chi diffama.

La maggioranza e non poteva essere diversamente si è spaccata: da una parte l’asse Pdl-Lega, sostenuto da una fetta dell’Udc, che non intende abbassare le sanzioni ai giornalisti e dall’altra la mediazione del Pd per un ddl meno punitivo. A questo punto una riflessione corre d’obbligo farla: la lobby anti-stampa ci ha provato e ci prova alla grande a mettere il bavaglio. La sensazione è che i giornalisti stia passando dalla padella alla brace. C’è poco da fare: raccontare, investigare, scoprire insomma fare il giornalista-giornalista mette sempre il terrore per chi ha qualcosa da nascondere. Si può fare il giornalista senza scrivere il falso e quindi diffamare. Giusta riflessione. Ma mettiamo il caso che un cronista scopre cose – vedi il bombardamento contro Milena Gabanelli e la squadra di giornalisti di Report – che non sono ancora al vaglio della magistratura inquirente oppure neppure si sanno, il diretto interessato – per capirci il potente di turno – comincerà a dire un giorno e l’altro pure: “Sono stato diffamato. Il giornalista ha insinuato, deformato i fatti, costruito affermazioni false e tendenziose. Mi sento calunniato. Ne dovrà rispondere davanti alla legge”. Buonanotte. Presenta a volo una bella querela contro il cronista, il direttore e l’editore. L’effetto è immediato e devastante stando alla prima bozza di legge prima annacquata e poi recuperata. Si rischia di beccarti una sanzione che può arrivare all’ammontare di 100mila euro. E’ una bella “pacconta” (direbbe il ministro Fornero) di quattrini, sufficiente a paralizzare – ai tempi della vacche magre – una redazione e mandare in tilt un giornale, una televisione, un sito web, una radio minacciandone da vicino la sopravvivenza. Solo agitare lo spauracchio di una querela temeraria – in questo clima e con questa bozza di legge – avrebbe l’effetto di bloccare sul nascere qualsiasi tipo d’inchiesta giornalistica e destinare ad altri servizi il cronista ficcanaso.

Un bavaglio cucito su misura, appunto. La constatazione evidente: i politici – al di là dello schieramento d’appartenenza – nutrono rancore, vendetta e una voglia di rivalsa, un risentimento contro i giornalisti. E come se i conti fossero aperti e prima o poi tocca chiuderli. Ecco nelle varie ipotesi legislative che si sono succedute e si succedono non è sbagliato – a mio modesto avviso – vederci un certo grado di prepotenza e arroganza. Una sensazione diventata realtà ascoltando il dibattito al Senato inesorabilmente alcuni esponenti di destra e di sinistra parlavano e parlano la stessa lingua: punire i cronisti che fa soltanto il proprio mestiere, informare.

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