Domani 20 ottobre è la giornata in cui si ricorda che la transessualità non deve essere considerata una malattia psichiatrica. Una data che è stata scelta in tutto il mondo per chiedere all’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) di togliere la transessualità dalla lista del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm, acronimo della sigla inglese Diagnostic and statistical manual), considerato la Bibbia della psichiatria ed attualmente in corso di revisione dopo 30 anni. Psichiatri, avvocati, associazioni e attivisti si stanno battendo perché la transessualità venga ufficialmente depatologizzata. Una richiesta che ha trovato adesioni anche negli ambienti istituzionali visto che il Parlamento europeo, nel settembre 2011, ha votato una risoluzione al riguardo.

In Italia si stima che ci siano circa 50mila persone transessuali: il 70 per cento sono MtF (Male to female, cioè uomini che diventano – o sono diventati – donne) e il 30 per cento sono FtM (Female to Male, donne che diventano – o sono diventate – uomini). Per fare il cambio di sesso e di documenti le persone transessuali devono passare attraverso una laboriosa e faticosa procedura dovuta proprio al fatto che la transessualità è considerata una malattia e classificata con il termine di “disforia di genere”.

Prima di tutto devono ottenere la diagnosi da due specialisti – psichiatra ed endocrinologo – che devono attestare la “malattia”. Poi possono procedere con la cura ormonale, che serve per iniziare la trasformazione (la transizione) del corpo da un sesso all’altro. Dopo questo iter che dura minimo dai 2 ai 3 anni possono procedere con l’intervento chirurgico per la rimozione degli organi riproduttori (e per l’eventuale ricostruzione degli organi genitali). Finite le varie operazioni – isterectomia e mastectomia per le donne che diventano uomini e orchiectomia per gli uomini che diventano donne – devono intraprendere il lungo procedimento burocratico per il cambio del nome sui documenti.

Chi si batte per la depatologizzazione chiede, attraverso l’eliminazione della diagnosi, che la persona transessuale venga messa nella condizione di decidere da sola che cosa fare con il proprio corpo, senza dover far ricorso a diagnosi e tribunali. Una soluzione che è già realtà in alcuni Paesi come la Francia, ad esempio, dove dal 2010 la transessualità non è più considerata una malattia psichiatrica.

Depatologizzare la transessualità, però, potrebbe avere una conseguenza da non sottovalutare: la perdita del sostegno economico da parte dello Stato nel percorso di transizione e nell’operazione. Fino ad ora, infatti, proprio per il fatto che la transessualità è considerata una malattia, la maggior parte degli Stati (come ad esempio quello italiano) assicurano il pagamento delle cure principali alle persone transessuali che hanno ricevuto il via libera da psichiatra ed endocrinologo.

Il rischio è che lo Stato, nel momento in cui rinuncia ad avere giurisdizione su nomi, corpi o identità delle persone transessuali, possa sentirsi sollevato dal dovere di sostenere economicamente il percorso di transizione che, a quel punto, assumerebbe il valore di una pura scelta personale. Se così fosse, l’intero iter diventerebbe una prerogativa esclusiva di chi ha abbastanza soldi per permetterselo.

Nella petizione che è stata firmata nei giorni scorsi anche da Vladimir Luxuria, tra le testimonial italiane della campagna, questo rischio è stato preso in considerazione. “Come è successo con l’omosessualità – si legge nella petizione – che è stata tolta da tale elenco nel 1990, è arrivato il momento di smettere di stigmatizzare le persone transessuali. Questo non significa che dobbiamo essere esclusi dal sistema sanitario: le donne incinte non sono malate, ma ricevono assistenza medica. Lo stesso dovrebbe accadere con le persone transessuali”. Il che significa: depatologizzare senza perdere i diritti e le cure gratuite. Un’utopia, forse. Ma sono in molti e in molte a crederci.

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