Hugo Chavez
Hugo Chavez @LaPresse

Lo confesso: per un po’ – nonostante la ragione mi segnalasse ad ogni svolta la quasi impossibilità dell’evento – avevo temuto che Henrique Capriles ce la facesse, privando me e questo mio blog d’uno dei suoi temi più divertenti e popolari. E invece no. Hugo Chávez ha vinto di nuovo. Ed ha vinto nei termini che tutte le persone con un minimo di sale in zucca avevano previsto. Ovvero: con margini abbastanza ampi, ma lontanissimi da quelli del passato; ed ancor più lontani dalla “historica paliza”, la bastonata storica (storica, evidentemente, nel senso di definitiva) che lo stesso Chávez aveva promesso d’infliggere all’opposizione.

La propaganda elettorale, si sa ha la sue regole. E, per la sua natura messianica, il “chavismo” è inevitabilmente condannato a toni carichi d’una enfasi millenarista che non può sfibrarsi nella mediocrità dei dubbi, o delle mezze misure. Però – fosse o meno Chávez convinto di quel che diceva – proprio questo il gran leader bolivariano aveva promesso ogniqualvolta, nelle sue quasi quotidiane apparizioni “a reti unificate”, era andato spiegando al volgo come, il 7 di ottobre, avrebbe “polverizzato” il suo rivale: almeno 10 milioni di voti ed un nuovo mandato tanto imperioso da rendere nei fatti “irreversibile” quel che irreversibile era già stato da lui teoricamente dichiarato. Vale a dire: il “socialismo del XXI secolo”.

Chávez di voti ne ha presi in realtà – pur avendo a sua incondizionata disposizione tutte le risorse dello Stato – meno di 7 milioni e mezzo. Ed il suo vantaggio sulle “forze del male” è passato dai 26 punti del 2006, ai nove abbondanti di domenica. Dal quasi 63 per cento di sei anni fa, Chávez è sceso al 54,4 di oggi. E, per quanto ancora una volta vincente, il suo “socialismo” è apparso, in effetti, più reversibile che mai. Anzi: se analizzato da vicino – alla luce del voto e, soprattutto, delle sue insite contraddizioni – è apparso più che mai destinato a crollare sotto il suo stesso peso.

Comunque sia, su questo non ci piove: il voto ha regalato a Hugo Chávez altri sei anni di governo. E all’autore di questo blog la possibilità di continuare a raccogliere gli improperi d’una parte della nostra sinistra – quella rimasta orfana del culto della personalità – raccontando le spesso grottesche (grottesche e, in quanto tali, tragicamente divertenti) avventure che si consumano in quest’ultimo ridotto del caudillismo messianico. Se la salute glielo consentirà, il governo di Chávez raggiungerà l’ambita meta del ventennio. E chi scrive avrà, se Dio vuole, molte altre occasioni per descriverne i più comici e tenebrosi versanti.

Tanto vale cominciare subito. Da dove partire per raccontare questo terzo mandato di Hugo Chávez Frías? Un buon punto, io credo, potrebbe essere proprio il “paquetazo”. Di che si tratta? Come forse qualcuno ricorderà, il “paquetazo” era il documento segreto (o il patto segreto) attraverso il quale – secondo Chávez – Henrique Capriles e le forze che lo sostenevano si preparavano, se vittoriose nelle urne, ad introdurre una serie di “devastanti misure neoliberali”, destinate a non lasciare pietra su pietra della politica sociale varata in 14 anni di chavismo . Quel documento non era, ovviamente, che un trucco di campagna, il drappo rosso che un “oficialismo” allarmato dalla rimonta di Capriles agitava di fronte ai molti che già hanno beneficiato della generosità del governo e, ancor più, a quelli che quei benefici attendono. Il messaggio era assai semplice. Se volete avere la casa – non per caso alla vigilia delle elezioni Chávez ha varato un programma per la costruzione di 350.000 alloggi popolari – non votate per chi quelle case vuol distruggere.

Giusto.  Ma che c’entra tutto questo – si chiederà qualcuno – con il nuovo mandato di Chávez? C’entra perché tra le molte storie che il chavismo di tutte le latitudini non ama ascoltare – il culto della personalità, gli attacchi alla libertà d’espressione, l’identificazione tra Stato e Grande Leader etc. – c’è anche quella della insostenibilità della gigantesca, inefficiente e molto “opaca” macchina di potere personale per mezzo della quale Chávez è andato, in questi anni, redistribuendo (e non sempre verso il basso) la rendita petrolifera.

Vedremo nei prossimi mesi e nei prossimi anni quante delle case promesse saranno state davvero terminate. E quante saranno invece andate a rimpinguare il lungo elenco dei faraonici progetti del socialismo chavista finiti nel nulla. Quel che è certo, tuttavia, è questo: come ho cercato di spiegar in un precedente post, la macchina di Chávez funziona a petrolio. Ma proprio il petrolio quella macchina sta distruggendo. Prima di Chávez, PDVSA (l’ente petrolifero nazionale) era “uno Stato nello Stato”, un’efficiente ma avarissima impresa i cui proventi consumava soprattutto sugli altari della propria crescita. Oggi è un gigantesco ed indebitato carrozzone assistenziale, la cui produttività va costantemente calando. E, prima o poi (anche in questo caso tutto dipende dall’andamento dei prezzi del petrolio), questo nodo verrà al pettine.

Il che significa che, nel futuro di questo terzo mandato di Chávez inevitabilmente si cela – imposta dalla tirannia dei numeri – una correzione di rotta, o un “paquetazo”, certo non identico, ma non poi troppo lontano da quello che, nell’ultimo tratto di campagna, Chávez ha attribuito, inventandoselo, al suo avversario. E quando questo accadrà sarà interessante vedere quel che succede. La storia (che notoriamente ha un debole per le vendette poetiche) è appena cominciata… 

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