Renzi e BersaniSe fossi Matteo Renzi, smetterei di spendere soldi inutili (di chi? Non è mai molto chiaro) per la campagna elettorale delle primarie. Non c’è spot più efficace che mandare in loop il video dell’intervista di Pier Luigi Bersani a Fabio Fazio, ieri sera, per spingere il potenziale elettore democratico a scegliere il sindaco di Firenze. O per disertare le primarie del Pd.

Con il suo sogghigno emiliano, che vorrebbe evocare buon senso più che derisione, Bersani si è lamentato che Renzi non si sia presentato all’assemblea del Pd che doveva decidere le regole delle primarie: “Avrei gradito che Renzi ci fosse, mi sarebbe piaciuto”. E poi spiega il perché: “Non basta dire ‘mi fido di Bersani’ bisogna anche fidarsi del collettivo se ci si tiene”.

Di solito è buona creanza uscire dalla stanza quando la decisione ti riguarda. Al massimo ci si può stupire che Bersani gestisca le procedure delle primarie di coalizione a cui corre da privato cittadino e non da segretario del partito. In un Paese che ha un comitato per tutto, ci voleva tanto a crearne uno indipendente che gestisca il voto? Ma non è questo il punto. Per Bersani quello che conta non è il rapporto personale tra i due sfidanti, la fiducia nella correttezza dell’avversario. No, l’importante è “il collettivo”, il politburo, quello che serve non è il consenso tra gli elettori, anzi, guai a cercare di conquistare i delusi dal centrodestra: si dimostra scarsa purezza.

Bisogna avere la benedizione del “collettivo”, entità mistica che indica gli inamovibili dinosauri accampati da decenni sugli scranni parlamentari e nelle stanze oscure del partito. Guai a dimenticare “il collettivo”, prima garanzia di sopravvivenza per tutti, entità mistica la cui funzione primaria è evitare che il Pd ceda alle richieste dei suoi elettori di mettere un limite ai mandati parlamentari per i dirigenti, specie per quelli che non hanno mai vinto un’elezione. Il segretario, poi, non si capacita che Renzi preferisca andare alle feste dell’Unità – dove c’è “il pubblico” – invece che alle riunioni di partito.

Davvero singolare che un politico scelga il contatto con chi lo dovrebbe eleggere invece che con una nomenklatura che al massimo lo può nominare. Nella visione bersaniana, dunque, le primarie sono una questione di partito. Che si dirime nelle riunioni senza giornalisti, le decisioni vanno poi soltanto ratificate nelle urne (come è sempre stato finora nelle primarie del centrosinistra). Lo scopo quindi è dare una patina democratica a decisioni oligarchiche. Ma questa volta è più difficile, perché gli sfidanti sono davvero due. Ne resterà uno solo? La cosa singolare è che è irrilevante saperlo.

Se vincesse Renzi, il sindaco di Firenze diventerebbe il candidato premier di una coalizione in cui non può scegliere nessuno dei parlamentari (nominati dalle segreterie, finché c’è il Porcellum in vigore). Quindi Bersani, anche se perde, potrà garantire la sopravvivenza del “collettivo”, il quale ne è ben consapevole. E quindi accompagna il segretario in questa singolare sfida per la legittimazione, sperando che vinca, ovviamente, ma non troppo. Perché deve essere chiaro che il potere non è dei singoli, ma del “collettivo”.

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