Con all’orizzonte scenari foschi di devastazione costituzionale, la partita delle dismissioni del patrimonio pubblico riemerge puntuale come ultima chance, dopo i tagli indiscriminati allo Stato sociale e le campagne di tassazione selvaggia, per tentare di pianificare il debito pubblico, o forse meglio per fare nell’immediato un po’ di cassa.

Lo stesso meccanismo di voto al Senato, dove il Governo ha posto la fiducia sul maximemendamento 95/2012 sulla spending review, nel quale è confluito il d.l. 87 sulla sdemanializzazione, non ha lasciato alcuno spazio per emendare un provvedimento per il quale è facile prevedere un passaggio altrettanto “indolore” alla Camera.

Per quanto riguarda le dismissioni, si tratta di una scelta non innovativa, in quanto rappresenta, per la svendita delle utilities, la risposta alle sollecitazioni della BCE sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali, inviate nell’agosto scorso al Governo Berlusconi.

Un piano non nuovo, che vede la messa sul mercato, in diverse fasi, degli immobili e delle partecipazioni. La cessione del patrimonio avverrà tramite fondi verso i quali veicolare le dismissioni delle attività del settore pubblico, in particolare a livello regionale e locale.
Una prima, evidente contraddizione risiede nella diversa consistenza del patrimonio pubblico tra Stato e Regioni/Enti locali, e sui meccanismi di assegnazione dei ricavi su base territoriale. Il divario è evidente: a fronte dei 72 miliardi di euro di immobili posseduti dallo Stato, gli Enti locali dispongono di un patrimonio 5 volte superiore, stimato, a livelli di mercato, in 349 milioni di euro. Il rapporto si inverte, sbilanciato a favore dello Stato, per quanto riguarda le partecipazioni (63 contro 17), con un reddito potenziale, però, più alto per quelle degli enti locali, a dimostrazione che le utilitiesterritoriali risultano più vantaggiose sul piano della gestione economica.

Anche dai flussi delle concessioni emergono rilievi interessanti, quali la forte prevalenza di cassa delle Regioni, con circa 1 miliardo di euro all’anno, contro i 500 milioni dello Stato, prevalentemente provenienti dalle risorse naturali (autostrade, aeroporti e porti rappresentano appena i 2/5 di questa “cassaforte”).

Oltre a queste considerazioni, che lasciano aperti interrogativi soprattutto sulle modalità della dismissione e sui criteri perequativi di redistribuzione delle risorse, la maggiore perplessità riguarda la privatizzazione delle utilities, che contraddice soprattutto la scelta, sostenuta dal referendum del giugno 2011 sui servizi pubblici locali e conseguente alla sentenza della Corte Costituzionale n. 199 del 2012, di resistenza al progetto di privatizzazioni forzate.

Secondo il principio che tutti i cittadini “sono titolari pro quota di beni pubblici”, le suddette dismissioni mettono in crisi il sistema di garanzia all’accesso a beni e servizi pubblici secondo i parametri costituzionali della solidarietà e dell’eguaglianza. Parliamo di svendita di diritti di cittadinanza e di beni comuni, ovvero di beni prevalentemente funzionali a soddisfare fasce di utilità e soprattutto diritti fondamentali.

Il “federalismo demaniale” che metterebbe in moto la soluzione Monti, aumenterebbe il divario tra le aree forti e deboli del Paese, alimentando una speculazione tariffaria proprio sui servizi pubblici, con forti rischi di infiltrazioni della criminalità organizzata. Per queste ragioni è importante da adesso rafforzare un fronte contro le svendita del patrimonio pubblico, avviando la raccolta di firme per la richiesta di un referendum che abroghi il d.l. 87/2012, decreto palesemente incostituzionale.

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