È partita puntuale l’offensiva contro Roberto Scarpinato. Ha parlato alla commemorazione della strage di via D’Amelio, nel ricordo di Paolo Borsellino. Ha detto: “Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere… Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti”.

Scarpinato è Procuratore Generale della Repubblica a Caltanissetta. Non può dire queste cose. Deve essere trasferito per incompatibilità ambientale. E si deve valutare se averle dette costituisce illecito disciplinare. Pertanto si sollecita in tal senso il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Gianfranco Ciani. Così ha detto Nicolò Zanon, componente del Csm nominato dal Pdl. Pdl, e come ti sbagli.

E poi: la strage, due anni di indagini sulla trattativa Stato-mafia, incriminazione per falsa testimonianza di uomini politici di primo piano, già ministri della Repubblica, interventi in loro favore dei vertici di istituzioni politiche e giudiziarie; non è mica questo il problema; il problema è che Scarpinato ne parli.

E ancora: decine di familiari di vittime di mafia, meglio di Stato-mafia, hanno chiesto ai politici di non intervenire ai funerali dei loro cari, di non portare fiori, di starsene a casa; e questi, tremebondi (ma senza vergogna), a casa se ne sono stati; e non hanno osato dire una parola, una sola, contro quei poveretti che chiedevano gli fosse almeno risparmiata la beffa; ma Scarpinato, amico e collega di Borsellino, lui no, non deve parlare, non deve piangere, non deve incazzarsi. Non deve dire, in Sicilia, dove lavora, dove ha sempre lavorato, che mafia e Stato hanno violentato quella terra, hanno corrotto, depredato, ucciso. Perché se lo dice diventa incompatibile con il territorio in cui tutto ciò si è verificato e continua a verificarsi. Vi rendete conto: non è lo Stato-mafia il problema; il problema è chi lo combatte e che, alla celebrazione di un amico che lo ha combattuto ed è stato ucciso, ricorda che l’omicida è lo Stato-mafia; e che non ne può più di vederlo nei doppi panni di assassino e di compunto celebrante di ricordi molesti.

Ma che deve dire un magistrato, al funerale di un collega morto ammazzato, per non essere “incompatibile”? Andrebbe bene un semplice “Caro Paolo mi dispiace che ti hanno ammazzato, eri tanto bravo, e poi ti volevo bene”? Perché già dire “Farò del mio meglio per continuare il tuo lavoro e beccare gli assassini” sa di accanimento giudiziario

Ma non farebbe prima il Csm a emanare una bella nuova circolare: “Alle commemorazioni degli eroi della magistratura morti ammazzati i magistrati non ci debbono andare; e se proprio ci vanno debbono stare zitti. In difetto si ravviserà incompatibilità ambientale e, nei casi più gravi (per esempio se ti scandalizzi perché gente di non specchiata virtù si aggira tra amici e parenti del morto e fa finta di condolersi) l’illecito disciplinare.

Affidato all’iniziativa di chi (il Procuratore Generale della Cassazione Ciani) era intervenuto nell’interesse di Mancino, incriminato per falsa testimonianza nel processo per la trattativa Stato-mafia. Aveva proprio ragione Cicerone: “Fino a quando abuserete della nostra pazienza”?

Il Fatto Quotidiano, 27 Luglio 2012

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