I contratti a tempo determinato sono stati introdotti in tutta Europa per dare flessibilità a mercati del lavoro ritenuti molto rigidi. Nel nostro paese avevano anche un altro obiettivo: ridurre il lavoro nero. I risultati empirici dimostrano che la riforma Biagi non ha avuto alcun effetto significativo nell’assorbire il lavoro irregolare. I datori di lavoro che assumevano in nero, continuano a farlo; i datori di lavoro che prima della riforma assumevano nel mercato regolare, continuano a farlo, ma ora preferiscono ricorrere ai contratti a tempo determinato.

 di Cristina Tealdi* (Lavoce.info)

I contratti a tempo determinato sono stati introdotti nella legislazione di molti paesi europei a partire da metà degli anni Ottanta e si sono diffusi rapidamente fino a raggiungere percentuali elevate (tabella 1).

 In cerca di flessibilità

Il loro obiettivo principale era quello di introdurre flessibilità in mercati del lavoro ritenuti molto rigidi, grazie alla possibilità per le imprese di apporre un termine al contratto di lavoro e di licenziare il lavoratore senza costi aggiuntivi a scadenza. (1) La flessibilità era considerata un elemento essenziale per rendere il mercato del lavoro dinamico ed efficiente, per ridurre gli alti tassi di disoccupazione (totale e giovanile) registrati in Europa rispetto agli Stati Uniti, e per aumentare la produttività e facilitare la crescita economica. In alcuni casi, l’aggiunta di incentivi di tipo fiscale (quali la riduzione dei costi di contribuzione) ha reso questi contratti una risorsa molto vantaggiosa per le imprese.

In Italia, sono andate in questa direzione tre riforme del lavoro: legge Treu, decreto legislativo 368/2001, legge Biagi). La legge Treu ha disciplinato il contratto di lavoro temporaneo (apprendistato, tirocini) e introdotto il lavoro interinale. Il decreto legislativo 368/2001 ha esteso la possibilità di apposizione di un termine al contratto per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. La legge Biagi ha modificato la normative in materia di apprendistato, ha sostituito il contratto di collaborazione coordinato e continuativo (co.co.co) con il contratto a progetto (co.co.pro) e ha introdotto nuove tipologie contrattuali, quali il lavoro a chiamata, intermittente, a progetto, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite.

La percentuale di contratti a tempo determinato è dunque balzata dal 5 per cento di metà anni Novanta a oltre il 13 per cento nel 2010 (vedi grafico 1).

Nel nostro paese, oltre che dalla necessità di introdurre flessibilità nel sistema, la disciplina di queste forme contrattuali è stata motivata da due ulteriori elementi.

 Grafico 1: Percentuale dei dipendenti a tempo determinato sul totale dei lavoratori dipendenti (dati Ocse)

Prima di tutto, si stava cercando di favorire la partecipazione femminile alla forza lavoro, una delle più basse in Europa (44 per cento rispetto alla media europea del 54 per cento) e di elevare il tasso di occupazione femminile (36 per cento rispetto alla media europea del 49 per cento). (2) In secondo luogo, si perseguiva l’obiettivo di ridurre il lavoro irregolare, che agli inizi degli anni Novanta rappresentava più del 13 per cento del totale.

Il lavoro nero

Grafico 2: Percentuale di unità di lavoro irregolari sul totale delle unità di lavoro (dati Istat)

Il tasso di irregolarità (grafico 2) si è mantenuto su livelli piuttosto alti fino al 2001 e 2002, quando sono state approvate due importante sanatorie in materia di mercato del lavoro: la legge 383 del 2001, che prevedeva incentivi di tipo fiscale e previdenziale per i datori di lavoro che provvedevano a regolarizzare i lavoratori dipendenti assunti in nero, e la legge Bossi-Fini del 2002 che prevedeva l’espulsione immediata degli immigrati clandestini e proponeva una sanatoria per l’emersione del lavoro nero svolto da lavoratori stranieri. L’efficacia dei due interventi è dimostrata dal fatto che le stime parlano di più di 300mila lavoratori in nero regolarizzati nel 2001 e 700mila lavoratori immigrati regolarizzati a seguito della seconda sanatoria. A partire dal 2003 il tasso di irregolarità è ritornato a salire e questo suggerisce come l’effetto delle sanatorie sia un intervento con effetti limitati al breve periodo.

Dopo la riforma Biagi

La legge Biagi elencava tra i suoi obiettivi primari “la creazione di un mercato del lavoro trasparente ed efficiente in grado di incrementare le occasioni di lavoro e garantire a tutti un equo accesso a una occupazione regolare e di qualità”. L’introduzione di forme contrattuali particolari (quali il lavoro a chiamata, il lavoro intermittente, eccetera) aveva infatti lo scopo di fornire uno strumento, prima inesistente, per disciplinare rapporti di lavoro non-standard tra datore di lavoratore e lavoratore. Proprio in quanto non-standard, questi rapporti rappresentavano potenzialmente una rilevante fonte di lavoro irregolare. A quasi dieci anni dall’approvazione della riforma, è possibile e necessario fare un bilancio. (3)

Utilizzando dati Istat e Banca d’Italia, ci siamo chiesti in particolare se i contratti a tempo determinato, più flessibili e in certi casi più economici dal punto di vista fiscale rispetto al contratto permanente, rappresentano un valido strumento per incentivare i datori di lavoro a regolarizzare i lavoratori in nero. Abbiamo valutato come le dinamiche del mercato del lavoro regolare (permanente e a tempo determinato) e irregolare siano cambiate a seguito dell’approvazione della legge Biagi.

I risultati empirici dimostrano che la riforma non ha avuto alcun effetto significativo nell’assorbire il lavoro irregolare in Italia: i datori di lavoro che assumevano in nero, continuano a farlo; i datori di lavoro che assumevano nel mercato regolare prima della riforma, dopo la sua entrata in vigore preferiscono assumere i lavoratori con contratto a tempo determinato piuttosto che con contratto permanente. (4)

(1) È importante ricordare che mentre in Italia il costo del licenziamento a scadenza del contratto è pari a zero, in altri paesi europei il costo esiste, ma è inferiore a quello di licenziamento che il datore di lavoro sosterrebbe in caso di contratto a tempo indeterminato.

(2) Dati Ocse 1990.

(3) Gli effetti della riforma Biagi sono analizzati in uno studio, ancora in corso, che ho svolto in collaborazione con Edoardo Di Porto e Leandro Elia.

(4) Nella prosecuzione del nostro studio, l’analisi del modello teorico basato sui dati ci permetterà di identificare e quantificare gli interventi che potrebbero spingere i datori di lavoro a scegliere il regolare rispetto all’irregolare (quali la riduzione della tassazione dei contratti di lavoro, l’incremento dei controlli da parte degli ispettori del lavoro, l’aumento delle sanzioni, eccetera), per poi suggerire misure di intervento per incrementare e incentivare il lavoro regolare in Italia.

*E’ assistant Professor in Economia a IMT Lucca, Scuola di Alti Studi. Ha ottenuto il Dottorato in Economia presso la Northwestern University nel 2011.

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