«Ascolta Roma, sono io: Puzzilli Tomasso che te parla! A’ città eterna, sei finita! Adesso er pane te lo compri dove te pare, però te lo devi scavà coll’unghia dentro à sta città de zozzi e de assassini». Così Tomasso, in piedi sul piedistallo dell’obelisco di piazza San Giovanni. È uno dei “californiani”, «er terore de Pietralata», quei ragazzi che dalla periferia arrivano in centro «a rimedià a’ grana», truffare, prostituirsi e commettere reati. Ce li raccontava Pasolini nel suo Una vita violenta, pubblicato nel 1959. Ma quella criminalità, oggi, non c’è più. Quelli di Pasolini erano ragazzi di borgata, spinti dalla fame e dalla miseria: nessuna vocazione per la violenza e il crimine.

Dai quei tempi a oggi molto è passato sotto e sopra i ponti di Roma. Eppure il risultato non cambia: a legger le cronache, la violenza e il crimine non sono diminuiti. Anzi. Sono però diversi i protagonisti: non più Tomasso e borgatari, ma colletti bianchi della mala autoctona e mafie varie d’importazione, africani e romeni, poliziotti corrotti, transessuali e ragazzotti della Roma bene annoiati e in cerca dell’adrenalina d’una sera.

Un catalogo di varia umanità che spesso ha dato vita ai peggiori stereotipi. E ai migliori racconti. Fra gli uni e gli altri, in mezzo, le storie di banditi e fuorilegge che hanno fatto della città eterna lo scenario delle loro scorribande. Da Leonardo Cimino, il primo che nel 1967 con una certa nonchalance seppe armonicamente dar vita al connubio rapina-omicido: ti derubo e ti uccido; poi negli anni Settanta fu la volta dei marsigliesi, sbarcati a Roma come nelle più degne sceneggiature, che diedero avvio ai sequestri nella capitale (famoso quello, nel ’75, del gioielliere Gianni Bulgari); poi venne la banda della Magliana, capace di generare una retorica criminale e ottime ricostruzioni letterarie, come quella di Giancarlo de Cataldo nel fortunato libro Romanzo criminale (Einaudi) ripresa dagli omonimi film e serie televisiva.

Ma non solo: c’era Laudovino De Sanctis, detto Lallo lo zoppo, famoso esponente della mala che negli anni Settanta organizzò diversi sequestri ed entrò di diritto negli annali carcerari per le sue strepitose e rocambolesche evasioni; o Agostino Panetta, a capo della “Banda dell’arancia meccanica”, omaggio alla violenza a suon di Beethoven di Kubrick, che agli inizi degli anni Ottanta portò a termine più di settecento rapine. E poi Johnny lo Zingaro, che nel 1987 tenne per 24 ore in scacco le forze dell’ordine e la città in una fuga disseminata di rapine, sequestri e omicidi, o anche Luciano Liboni, la cui fuga finì nel sangue.

Tutte storie accadute, tanto vere quanto al limite della credibilità – tutte raccontate nel bel volume di Yari Selvetella, Banditi, criminali e fuorilegge di Roma (Newton Compton). Da leggere insieme a un altro volume dell’autore, scritto con Cristiano Armati, Roma Criminale (sempre Newton Compton), che è una sorta di enciclopedia delle gesta e delle vite dei malviventi sotto il Cupolone.

Del resto Roma nasce con la violenza, il suo atto fondativo è un crimine, il peggiore di tutti: l’omicidio di Remo da parte del gemello Romolo. Mito o realtà poco importa, perché fra i sette colli il crimine se l’è sempre passata piuttosto bene. Notoriamente città di papi e di delinquenti, con in mezzo la politica (non sempre in mezzo). Qui il crimine ha qualcosa di sacro, come se la città papalina diffondesse solennità anche alle peggiori azioni (è il paradosso dei sacrifici rituali delle società primitive: si uccide la vittima perché è sacra oppure è sacra perché la si uccide?). Il delinquente è popolare, se non altro perché i suoi crimini eclatanti fanno sempre parlare e hanno prodotto film, romanzi, spettacoli teatrali, entrando così in un immaginario collettivo. Che poi il malvivente romano assomigli a Er Monnezza – il personaggio interpretato da Tomas Millian, turpe, coatto, un “trucido” pronto a ingannare e “fottere”, salvo poi avere un’etica e salvare bambini morenti o collaborare con la polizia là dove giusto e doveroso – sia soltanto un’altra delle tante raffigurazioni mitiche della criminalità romana, poco importa.

Oggi a Roma si è tornato a sparare per strada: s’ammazza e si gambizza, senza troppi convenevoli. Altro che etica criminale. Non è più la mala di fine Ottocento che cantava “Fiore di lino / Nun me fà caccià fori er temperino / Sinnò te metto le budelle in mano”. Quella del temperino era l’epopea criminale della sfida a duello cavalleresca, con regole (va detto, spesso disattese) e, se si vuole, una morale. Oggi si spara, e basta. Ma la Roma criminale non è solo questa. C’è anche quella raccontata da Carmina Fotia, con abile realismo, nel romanzo distopico Italianera (Fuori Onda Edizioni): un futuro prossimo, 2013, una capitale in pieno disfacimento, un potere che corrompe e brama e ammorba con trame perverse. Qui il crimine non è più popolare, non ci sono morti ammazzati e violenza gratuita per le strade: piuttosto è chi governa a esser un delinquente. E la fantasia rischia di assomigliare sempre più alla realtà.

In definitiva aveva ragione, ancora, Pasolini. Poche ore prima di esser ucciso rilasciò un’intervista a Furio Colombo, dal titolo (deciso dallo stesso scrittore) Siamo tutti in pericolo. Ecco cosa diceva, nel ’75, l’intellettuale: «Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte».

Son passati quasi quarant’anni e a Roma quelle pecore, che sparano o che governano, le vediamo ancora.

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