Migliaia di pagine numerate a mano con numeri cerchiati come si faceva un tempo a scuola, centinaia di formati di documento diversi, un’interminabile sequenza di timbri e stamponi – proprio quelli che il Codice dell’Amministrazione digitale dovrebbe, ormai da tempo, aver messo fuori uso e fuori legge – e poi un’infinità di firme autografe autentiche, meno autentiche e assolutamente false a penna o a pennarello.

Aggiungete centinaia e centinaia di cancellature, note e frecce di rimando dal significato poco chiaro o completamente oscuro, interminabili elenchi di nomi di senatori scritti a penna talvolta in stampatello e talvolta in corsivo, in colonna o, piuttosto in ordine sparso quasi si trattasse delle navi disposte sullo scacchiere della Battaglia navale per risultare il meno raggiungibili possibile alle coordinate che guidano i “siluri” dell’avversario.

Post-it fotocopiati con sopra annotazioni indecifrabili e una miscela di font diversi da fare invidia alle “librerie” della tipografia dell’Istituto poligrafico Zecca dello Stato, e poi fax e e-mail, stampati, fotocopiati e autografati in maniera autentica o apocrifa.

Per finire metteteci una pluralità di vocaboli che con un eufemismo si potrebbero definire neologismi, ma che in realtà sono il semplice risultato di crassa ignoranza e di profonda distanza persino dalla lingua parlata nel Paese reale. “Sistema ordinistico”, giusto per fare un esempio, tra le parole presenti nei documenti in questione ma sconosciute a tutti i principali vocabolari della lingua italiana.

E’ questo lo sconcertante e desolante scenario che attende chiunque abbia tempo e coraggio di confrontarsi con le migliaia e migliaia di emendamenti presentati dai senatori italiani alla legge di conversione del decreto legge in materia di liberalizzazioni appena varato dal Governo. Uno scenario davanti al quale ci si potrebbe limitare ad una risata, accompagnata magari da una scrollata di spalle disillusa, ma che invece impone di fermarsi a riflettere.

Le leggi – specie quelle varate in un momento di crisi senza precedenti e quelle destinate a cambiare, in un senso o  nell’altro, la storia del Paese – sono il risultato di un iter istituzionale complesso, articolato, delicato e nel quale i parlamentari sono chiamati a fare il lavoro per il quale sono pagati e a farlo nel modo migliore possibile compatibilmente con le capacità di ciascuno e, soprattutto, con i mezzi e gli strumenti che il progresso tecnologico e culturale pone a loro disposizione.

Le oltre tremila pagine di carta, scarabocchiate, disordinate, falsificate e scritte talvolta in un italiano a dir poco approssimativo sono lo specchio del nostro Parlamento oggi. Perdonatemi se, per una volta, non guardo al contenuto. Il punto è un altro.

Il punto è che quello che emerge dalla lettura – se l’espressione può adoperarsi in relazione all’interpretazione e decifrazione di un’infinità di geroglifici ad inchiostro su carta bianca o quasi bianca – delle migliaia di pagine che contengono la posizione dei nostri senatori su una delle manovre legislative più importanti della storia moderna del Paese, è il segno dello scarso rispetto che Lorsignori nel Palazzo hanno del loro compito e del loro Paese.

Non è solo una questione di forma e di rispetto per il lavoro che si fa – peraltro strapagati – e per il Paese che si rappresenta. Tanta confusione, approssimazione e disordine minano irrimediabilmente l’efficacia del processo di produzione normativa e pongono le leggi dello Stato alla mercé di errori e sfruttamenti da parte di chi è scaltro ad avvantaggiarsi dell’errore altrui per infilare tra le righe di un emendamento, di un comma o di un articolo una previsione in grado di porre sé e i propri compagni di merenda in posizione di privilegio. Non è questo il Parlamento che il Paese si merita e non è questo il modo di lavorare per il quale paghiamo ogni anno un apparato – quello parlamentare – da centinaia di milioni di euro.

Siamo nel 2012, nell’era di Internet e delle piattaforme collaborative diffuse. Possibile che in Parlamento la produzione normativa debba restare affidata a tecniche e dinamiche arcaiche, per non dire primitive, gestite, peraltro, in maniera confusa, distratta e approssimativa da senatori – certamente la più parte, ma guai a generalizzare – che sembrano comporre e firmare gli emendamenti a un disegno di legge come quello in materia di liberalizzazioni con la stessa disattenzione con la quale, probabilmente, firmano, in serie, gli auguri di Natale?

Serve una piattaforma Wiki (se ne trovano di straordinarie in Rete, utilizzabili anche gratuitamente) per non dover più faticare a capire quali senatori hanno presentato un certo emendamento e perder tempo a decifrare il contenuto dell’emendamento medesimo, serve un correttore ortografico per non dover più leggere in un disegno di legge espressioni come “sistema ordinistico” per far riferimento al sistema degli “Ordini professionali” (l’espressione è ripresa con assoluta naturalezza da decine e decine di Senatori), ma servono soprattutto senatori – e probabilmente deputati – che abbiano davvero a cuore le sorti del Paese, che avvertano forte il senso del dovere, almeno quello per il quale sono profumatamente pagati, e che sappiano usare le nuove tecnologie.

E non ci si venga a raccontare che l’utilizzo dell’inchiostro, di centinaia di migliaia di fogli di carta scarabocchiati e riempiti di incomprensibili geroglifici è più sicuro o più “a norma di legge” dell’inchiostro di bit con il quale si scrive su una qualsiasi piattaforma collaborativa. I documenti che riassumo gli emendamenti al disegno di legge sulle liberalizzazioni contengono firme false – non serve un perito calligrafo per capirlo – ed espressioni indecifrabili.

Non c’è scenario peggiore né per l’immagine del Paese, né per l’affidabilità delle regole che il Parlamento è chiamato a varare.

Se quanto precede vi sembra esagerato, provate a guardare il video qui sopra e forse rivedrete la vostra posizione.

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