Spesso capita di sentire questo discorso: noi in Italia non abbiamo mica riviste culturali come il Times Literary Supplement o la New York Review of Books! Vero solo in parte. Uguali no, ma simili – per competenza, autorevolezza e apertura al mondo della cultura – sicuramente sì. Basterà sfogliare L’Indice dei Libri del mese, un glorioso mensile che merita di esser letto e, in questo momento, supportato – sta vivendo una difficile fase della sua esistenza.

La rivista si è dotata anche di un blog, dove fra molte cose interessanti si può leggere un recente articolo di Mario Cedrini che ci informa dell’esistenza della “migliore rivista accademica del mondo”. Nelle università (quelle anglosassoni almeno, non certo qui da noi) vige il principio della pubblicazione. Più si pubblica, meglio si pubblica (nel senso dell’importanza della rivista dove appare il saggio o l’articolo), più si fa carriera e si è “importanti” – cioè benpagati e ricercati dalle università prestigiose.

Così le riviste sono dotate di un sistema di valutazione che attribuisce loro più o meno autorevolezza. C’è anche un software (già dal nome la dice lunga: Publish or Perish) che analizza la produttività degli studiosi in base al numero di pubblicazioni, all’importanza delle riviste che li pubblicano e il numero di citazioni ottenute. Ma come si fa a valutare la rilevanza di un periodico?

È piuttosto semplice: gli studiosi mandano i loro contributi alla rivista, questa (attraverso il suo comitato editoriale e scientifico) decide quali pubblicare. Ora, più sono questi rifiuti e più la rivista conta. Quelli che vengono chiamati top journals sono le riviste con le più alte percentuali di rifiuto rispetto ai contributi che vengono loro sottoposti. Ed è così che a un gruppo di geniali accademici, tutti titolati e blasonati, viene un’idea: creiamo una rivista che è il top del top, una rivista con gli indici di autorevolezza più alti del mondo.

Ed è così che nasce il Journal of Universal Rejection. Ed è senza dubbio la migliore, visto che rifiuta tutto! Semplice, no? Qualsiasi contributo non è accettato. Un paradosso? Uno scherzo di accademici burloni? Non solo. La rivista esiste ma non c’è. Ha un sito e un blog che si chiama, adorabilmente, “Reprobatio certa”.

Qui vi sono enunciati i principi ispiratori. Tanto per cominciare si possono mandare papers di qualsiasi disciplina, saranno rifiutati indipendentemente dalla loro qualità. Poi ci sono degli indubbi vantaggi: avete presente l’ansia dell’attesa quando inviate un saggio? Beh, qui non serve, tanto si sa già quale sarà il responso. Fra l’altro arriva presto: altro che aspettare settimane, per il “no” bastano poche ore. Volete mettere poi la comodità di non dover mandare pagine e pagine: a che serve? Ne bastano un paio, giusto così. E nemmeno la perdita di tempo a formattare gli articoli: qui si possono mandare come uno vuole, tanto, scrivono quelli della rivista, “francamente, ce ne freghiamo”.

Va da sé che il sito consta di una sola pagina, vista la mancanza di materiale, e che l’archivio della rivista è vuoto – ma se volete vi danno la possibilità di comprare ugualmente un abbonamento annuale ai numeri, vuoti! Le parti più esilaranti sono sul blog, dove vengono pubblicate col consenso dell’autore le lettere di rifiuto. Si ride molto, ma la bizzarra iniziativa serve anche a comprendere quei meccanismi, non sempre lineari, dell’accademia e delle sue riviste. E poi ormai inviar loro un articolo è diventato un motivo di grande orgoglio: volete mettere esser rifiutati dalla migliore rivista del mondo?

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