Siamo nei titoli di apertura di tutti i Tg europei e americani, di tutti i siti web e sulle prime pagine di tutto il mondo. Siamo molto più “cruciali” e attenzionati della Grecia che quanto meno, pur nella catastrofe economica, è riuscita a darsi una svolta politica e non si è fatta inghiottire in un immobilismo mortifero da un capo di Governo che vede nel suo scranno il jolly per evitare la galera e salvare la roba.

Sono mancati a Montecitorio otto voti alla maggioranza per arrivare a 316, otto traditori, ovviamente della Patria, che non si sono lasciati convincere, almeno per ora, alle lusinghe di un padre-padrone avulso dalla realtà,  in perenne tragicomica rincorsa dei suoi, a cui non può più garantire nessun domani.

Un Berlusconi “incerto”  e stretto “dall’ assedio e dall’aggressione eterodiretta” dei mercati e del consesso internazionale è stato costretto a qualcosa di ben più stringente che “dare la disponibilità a dimettersi per andare al voto” come aveva preannunciato e auspicato Giuliano Ferrara, prima dell’esito del colloquio con il Capo dello Stato.

Mentre il differenziale con i titoli tedeschi saliva a 500 punti (il massimo mai registrato da quando c’è l’euro), il rendimento dei Btp a 6,77 e Mediaset era il titolo più penalizzato in borsa, Berlusconi è salito al Quirinale per rassegnare le dimissioni, ma ponendo una condizione temporale, e cioè dopo l’approvazione della legge di stabilità.

Una mossa non più rinviabile e certamente non una mera “disponibilità”, certificata dal comunicato del Capo dello Stato. Eppure le dimissioni rimangono legate all’approvazione di una legge dal contenuto tuttora aleatorio i cui tempi teoricamente strettissimi, data l’emergenza assoluta e lo stato ormai evidente di commissariamento dell’Italia, sono l’ultimo e forse il più strenuo fronte di resistenza del “dimissionario”.

Come è già chiaro nelle dichiarazioni dei fedelissimi, per amore o per forza, dal termine di una settimana o dieci giorni per il primo passaggio parlamentare si è passati a un mese e più per l’approvazione definitiva. In un mese possono accadere molte cose, oltre la totale dissoluzione di quel che resta dell’economia e della credibilità del paese; si possono per esempio trovare argomenti persuasivi per riportare sulla retta via “i giuda che hanno pugnalato il governo” o persino per reclutare “nuovi Scilipoti”.

Di positivo al momento, nonostante i contraccolpi di una campagna elettorale che si preannuncia per ovvi motivi ancora più bassa e appiattita sul livore e la rivalsa del capo “tradito”, anche se il candidato prestanome fosse l’ineffabile Angelino, c’è che la prospettiva più realistica sembrerebbe il voto.

Benché sia una mortificazione della democrazia ritornare alle urne dopo il successo travolgente della campagna referendaria ancora con il Porcellum, è sempre grandemente preferibile all’umilinte stillicidio di un governo di larghe intese. Soprattutto se guidato da personalità dal ricco curriculum extrapolitico, per usare un eufemismo, come Renato Schifani, che in questi giorni si è dato un profilo più istituzionale che mai, o Gianni Letta, l’uomo di governo dal profilo più rigorosamente bipartisan di questa seconda miserevole repubblica in via di rottamazione.

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