Il sudafricano Greg Mill nel suo recente saggio “Why Africa is poor?” si domanda perché oltre mezzo secolo dopo la fine delle colonie (con l’eccezione di pochissimi, fra cui il Mozambico dove i portoghesi se ne sono andati nel 1974) la maggior parte dei paesi africani è rimasta in miseria.

Perché un continente che siede sui più immensi giacimenti minerari del pianeta, diamanti, oro, platino, uranio, ferro, cobalto, bauxite (tutta la tavola degli elementi chimici è nel ventre del continente nero), con un enorme potenziale agricolo vive per lo più al di sotto della soglia di povertà?

Perché nonostante da decenni si inviino capitali ed aiuti alimentari nulla cambia?

Perché, invece, i paesi asiatici, in meno della metà del tempo e con assai meno risorse sono divenuti le “Tigri” del sistema economico mondiale? La risposta è un rammarico dell’autore per la più grande occasione perduta.

L’Africa non è stata capace di eliminare i suoi contrasti, le sue faide tribali, il suo retaggio culturale che accetta come inevitabile lo strazio di molti e la felicità di pochissimi. A volte di uno solo. I presidenti africani hanno appreso dai colonialisti: la razzìa come unico metodo.

Il potere ha cambiato colore della pelle, non il modo di pensare. Ancor meno il modo di agire. Il prodotto interno di un paese, per quanto povero, è sempre molto, moltissimo denaro. Cent’anni fa finiva nelle casse della Corona di qualche regno europeo. Oggi sui conti correnti svizzeri del “Presidente” di turno. È la logica del capo tribù dal tempo dei primi esploratori alla ricerca delle sorgenti del Nilo: se vuoi passare nelle mie terre devi pagare. Devi pagare me che sono il capo, non il mio popolo.

Il principale problema dell’economia africana è politico – scrive Greg – E le scelte dei leader prese solo nei loro interessi… Lasciando i paesi in povertà, si assicurano il controllo e il potere“.

C’e’ una teoria complementare dell’antropologo scrittore e fotografo inglese John Reader nel suo monumentale saggio “Africa: Biografia di un continente” (in Italia pubblicato da Mondadori), il quale ritiene cha la maggior parte dei paesi subshariani, per conformazione geografica e territoriale, non abbiano mai sopportato grandi aggregazioni umane. Le risorse sono continue, ma non abbondanti e possono soddisfare solo piccoli gruppi di individui. Più grandi sono le aggregazioni umane, più rapidamente implodono. Il territorio cessa presto di supportarle. Se gli esseri umani insistono, madre natura interviene a sua difesa. Il metodo è la fame, la carestia, l’epidemia. Nuovi virus, nuovi parassiti disgregano le comunità troppo numerose. Che tornano a disperdersi in piccoli gruppi incapaci di progredire collettivamente.

L’insieme di questi elementi tiene il continente africano – terra dai tramonti rosso fuoco come non si vedono da nessuna parte al mondo e dagli spazi sconfinati – sotto scacco e in stato di perenne arretratezza. Ancora per molto?

La speranza starebbe nell’élite emergente che è andata a studiare nelle Università europee e americane. Tuttavia Taye Babeleye, oggi funzionario dell’International Institute of Tropical Agricolture di Ibadan in Nigeria, ricorda con nostalgia il suo villaggio “come una specie di paradiso, un posto dove si sentiva che la vita non sarebbe mai finita. Tra foresta e campi, caldo e pioggia, affetti familiari e senso di libertà”. Taye conitnua a interrogarsi se la globalizzazione farà bene all’Africa o se il continente rimarrà uno scacchiere dove le grandi potenze si giocano le loro partite.

di Januaria Piromallo (clicca qui per ingrandire la foto)

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