E’ la domanda che molti si fanno da alcuni anni a questa parte e che dopo il declassamento degli Usa da parte di Standard & Poor’s torna prepotente. Assieme a Moody’s e Fitch, S&P è una delle tre agenzie di rating che valutano l’affidabilità finnziaria di un soggetto emittente di titoli, sia esso un ente privato o uno Stato (sovereign rating). Come ha ben spiegato in una recente ricerca Federico Parmeggiani, le agenzie di rating hanno subito una strana evoluzione: nate come agenzie di stampa specializzata per fornire informazioni agli investitori hanno finito per avere come clienti proprio i soggetti emittenti.

Il ‘problema’ è che, nel corso del tempo, la valutazione di queste agenzie ha finito per avere un ruolo ‘regolamentare’, subordinando il proprio rating all’adozione di determinate scelte o politiche. Hanno assunto un ruolo talmente pervasivo che molti contratti finanziari prevedono i cosiddetti rating triggers, clausole che attribuiscono agli obbligazionisti determinati diritti nel caso in cui il titolo il loro possesso subisca un downgrading da parte di una o di tutte e tre le agenzie di rating. La valutazione delle agenzie finisce così per avere immediati effetti a cascata, anche a seguito del solo effetto annuncio.

Ma quanto fondati sono questi giudizi? Le metodologie impiegate sono molto sofisticate e gli indicatori molteplici. Per anni le agenzie hanno svolto un ruolo molto importante nel garantire la stabilità dei mercati finanziari. Tutti ricordiamo tuttavia il caso Lehman, tra gli altri: la mattina del default, le agenzie attribuivano A- a un titolo che era già carta straccia. Da allora, la reputazione delle agenzie ha subito seri colpi e ha dato il via a talune, timide, riforme negli Stati Uniti e in Europa, con Basilea II.

L’impressione è che, per sopravvivere alla crisi di reputazione, queste agenzie oggi siano più aggressive: in fondo, si potrebbe dire, meglio – per i creditori – essere accusati di ‘pessimismo’ che di ‘ottimismo’ nella valutazione di un titolo di debito. Ma è poi davvero così? Come si fa a stabilire se un rating era davvero giusto o sbagliato? Il rating finisce infatti per ‘auto-realizzare’ la propria previsione, specie se questa è al ribasso.

Il caso di questi giorni è esemplare: S&P riconosce di aver sbagliato, e di parecchio, la valutazione delle spese discrezionali dei prossimi anni. Ma dopo averle corrette, ha mantenuto il downgrading e l’outlook negativo. Lo ha fatto per salvare la faccia o in ossequio ad una rigorosa metodologia? Non lo sapremo mai. Il sospetto resta anche in ragione della sorprendente motivazione offerta ds S&P: resterebbe intatto il ‘rischio politico’ negli Usa. Rischio politico? E come si calcola? E soprattutto esso è riferito al Presidente o al comportamento ostruzionistico dei Republicans? Oggi i democratici dicono che S&P ha colpito l’irresponsabilità di una destra alla deriva del Tea Party. Questi ultimi dicono che è stato sconfessato il responsabile del tesoro Tim Geithner. Insomma, il downgrading di S&P, basato su un sedicente ‘rischio politico’, quel rischio lo ha aumentato nel giro di poche ore.

Ma possono le agende dei governi essere decise da un oligopolio di tre ‘indipendenti’ agenzie di rating? Quanta reputazione sono disposte a distruggere le rating agencies per tutelare la propria? Le agenzie si difendono con grande semplicità: le loro sono solo opinioni…

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