E’ polemica negli Stati Uniti sul caso di Amy Lee, una giornalista dell’Huffington Post sospesa per aver attinto in modo troppo esplicito dall’articolo di un collega, senza citare correttamente la fonte. Protestano – spesso coperti dall’anonimato – i giornalisti dell’Huffington Post. Protestano, più apertamente, molti giornalisti americani, per i quali HuffPo starebbe gettando la Lee “under the bus”. In altre parole, la starebbe scaricando, facendole pagare colpe non sue. Per il quotidiano online fondato da Arianna Huffington si tratta di un piccolo incidente, che potrebbe però allargarsi e diventare un’ombra inquietante sul futuro.

La storia ha inizio lo scorso 9 giugno, quando la Lee, una ragazza di 22 anni appena diplomata a Yale, pubblica un post in cui analizza alcuni sviluppi recenti nell’utilizzo di Twitter (“Anthony Weiner vs. Steve Jobs: Who Won on Twitter?”). La Lee, solo marginalmente e piuttosto in là nel pezzo, cita la fonte da cui trae le sue informazioni: un articolo di Simon Dumenco, columnist di Advertising Age. Dumenco se ne accorge e protesta pubblicamente. Peter Goodman, business editor di HuffPo, gli dà ragione. “Abbiamo tolleranza zero per questo tipo di episodi. Quanto avvenuto è inaccettabile”, scrive in una nota, e sospende a tempo indeterminato la Lee.

La mossa scatena le critiche di molti. Negli Stati Uniti la sospensione di un giornalista per aver “copiato” è un atto infamante, tale da distruggere per sempre la carriera. “Amy ha fatto quello che ci hanno sempre insegnato a fare”, dice, anonimamente, un ex giornalista di HuffPo. Dumenco interviene ancora, scrivendo che la Lee è stata punita “per essersi impegnata in uno stile di ‘aggregazione’ a lungo praticato e incoraggiato dai responsabili editoriali dell’Huffington Post”. Emergono intanto altri particolari imbarazzanti sulle procedure editoriali del sito. I giornalisti verrebbero per esempio incoraggiati a citare a fine pezzo il link dell’articolo da cui “rubano”, in modo da rendere inutile per il lettore la lettura dell’originale.

Non è la prima volta che polemiche di questo tipo investono l’Huffington Post. Proprio la fondatrice Arianna è stata soprannominata “la regina dell’aggregazione”, quindi del furto sistematico e consapevole di contenuti altrui. I casi più recenti e clamorosi sono stati la ripresa dell’intervista di Rolling Stone al generale Stanley McCrystal, con i giudizi al vetriolo sull’amministrazione Obama; il “furto” del colloquio di GQ con l’amante di John Edwards, che portò al divorzio l’ex candidato alla vice-presidenza; e ancora, l’“aggregazione” del profilo di James Franco pubblicato da Playboy. Tutti episodi in cui ha trionfato la pratica della “massima riscrittura e minima attribuzione”.

La sospensione di Amy Lee pone ora una serie di domande che vanno ben al di là del caso specifico. Chi controlla la correttezza editoriale dei contenuti dei quotidiani online? Come vengono addestrati i giovani giornalisti che sempre più numerosi affluiscono nelle redazioni Web? E dove finisce la citazione di una fonte e inizia il plagio? Tenendo presente, come fanno notare alcuni, che per l’online non esiste una sentenza di riferimento che fissi il limite tra i due territori (qualcosa di simile, per intenderci, al pronunciamento della Corte Suprema del 1964, che definiva “ciò che deve essere considerato osceno”). Queste domande generali non evitano che la polemica, nell’immediato si rifletta negativamente soprattutto sull’HuffPo. E la responsabilità, forse, non è di una giovane laureata di Yale.

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